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SPIGOLATURE SICILIANE

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Spigolature di curiosità, tradizioni e leggende nella gastronomia siciliana a cura di enzob.
presentate nell’ambito della 3° rassegna virtuale “Autunno all’italiana_online”.

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Le origini della cucina siciliana risalgono ai tempi delle colonie greche di Sicilia (VI-III sec. AC), quando l’eco dei banchetti della corte dei tiranni di Siracusa giungeva ad Atene. In verità la cucina dell’epoca non era molto elaborata: la base era costituita da pesci e carni varie insaporite con aglio ed erbe aromatiche e cucinate alla brace, da verdure crude o cotte (la cicoria selvatica imperava su ogni tavola), il tutto innaffiato dal vino prodotto dai vigneti siciliani già allora celebri. La pasticceria invece doveva essere più raffinata, a base di mandorle e miele, ed era rinomata in tutta la Grecia.
Questa base, ricca ma sobria, si caricherà nei secoli a venire di sapori nuovi, arricchendosi con le culture con le quali l’isola verrà a contatto. Le contaminazioni maggiori sono sicuramente quelle arabe (i dolci, l’agrodolce, lo zafferano e le altre spezie, l’uvetta, il cuscus), francesi (le salse, i gateaux, la raffinatezza delle elaborazioni) e spagnole (la sontuosità delle presentazioni, le insalate, le frittate).
Segue l’epoca dei “monsù“, il cui nome proviene dai cuochi francesi al seguito dei Borboni, una moda subito adottata dalla nobiltà locale, ai quali si deve l’estro di pietanze come la caponata di melenzane, la frittella di fave, carciofi e piselli, la pasta con i broccoli in tegame.
Accanto alla tradizione colta bisogna ricordare quella popolare, non meno interessante dell’altra: vi si annoverano soprattutto saporite minestre di verdure selvatiche che, insieme a formaggio di pecora, olive e cipolle, e al pane, costituivano fino alla metà di questo secolo la base dell’alimentazione del contadino e del pastore. Retaggio della cucina popolare è u’ maccu, un passato di fave secche, condito in modo diverso a seconda delle zone dell’isola e usato anche in versione minestra con la pasta.
Va infine citato il famoso “street food” siciliano, quell’insieme di “antipasti popolari” che si usa consumare direttamente davanti ai banchetti di cui pullulano i rioni popolari palermitani: le panelle, le stigghiole, il pane con la meusa, lo sfincione, e le friggitorie che coi loro odori inondano le strade circostanti invitando i passanti ad assaggi che costituiscono spesso veri e propri pasti in piedi.

[fonte: https://digilander.libero.it]

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La Sicilia greca a tavola

[Nella foto (1900 circa) il c.d. Tempio dei Dioscuri – Valle dei templi, Agrigento -, simbolo iconografico della Sicilia greco-romana]

8.8.1 la.sicilia.greca
La storia della gastronomia siciliana inizia come una favola con il classico “c’era una volta”. C’era una volta la civiltà “classica” in Sicilia: le colonie greche. I Greci provenienti dalle Cicladi nel 735 AC sbarcano sul litorale ionico, in prossimità dell’odierna Naxos, ed i Corinzi di Archia nel 734 AC a Siracusa. Diverse furono le novità che apportano questi colonizzatori e, per restare in tema, da un punto di vista alimentare, portarono la loro impronta in numerosi cibi e bevande. L’arte del fare il vino viene perfezionata da loro, l’ulivo, il farro ed altri prodotti già esistenti nell’isola vennero utilizzati in modo diverso con ottimi risultati.
Il farro, ad esempio, veniva utilizzato in Sicilia prima dei Greci per fare il pane, in seguito venne utilizzato anche in altro modo. Con la farina di farro si ottenevano delle primordiali tagliatelle molto saporite e, qualcuno sostiene, anche dolci assimilabili alla pasta frolla. Con il farro macinato grossolanamente si facevano delle ottime zuppe, e con il seme intero assieme a fave, lenticchie, ceci ed interiora di animali, la famosa Puls Fabata, citata anche da Plinio.
All’epoca dei primi insediamenti greci, sulle coste ioniche abitavano i Siculi ed in quelle tirreniche prosperavano i Sicani e gli Elimi. Queste antiche popolazioni avevano eretto potenti e progredite città, dove almeno da tre millenni si era sviluppata una cucina autoctona. L’integrazione di queste due civiltà mediterranee ha arricchito tutte le arti, compresa quella culinaria ed ha fatto nascere il gusto per la buona cucina che trovò più tardi grande accoglienza in Grecia. Qui, a poco a poco, gli elaborati manicaretti si sostituirono ai voluminosi arrosti dei tempi omerici ed alla maza, la schiacciata con farina d’orzo.

Accanto alla nuova cucina sorse la letteratura gastronomica. Primo in assoluto fu Epicuro Siracusano, seguì Miteco ed Archestrato di Gela (V-IV sec. AC). Archestrato di Gela, nel IV sec. AC, nei suoi Frammenti della gastronomia, asserisce di avere visitato ogni terra ed ogni mare ma che in Sicilia ha trovato il buon gusto. L’opera parla soprattutto del pesce: la stagione più propizia per pescare le varie specie e il modo di cucinarle. Il leitmotiv è quello di una cucina naturale, schietta e genuina, senza sofisticherie, e che si avvale unicamente di olio, sale ed, all’occorrenza, di aceto e di erbe aromatiche.

In Sicilia le mense dei ricchi buongustai erano sontuose e le vivande, variate e saporite, erano accompagnate da squisiti vini siciliani, ma anche da birra e da idromele. Il fatto che il banchetto fosse sentito come occasione per discussioni sui più vari argomenti sta alla base della ricchissima letteratura del Convito e del Simposio. A tale filone si può ricondurre anche la bizzarra opera di Ateneo, erudito greco di Egitto (200 DC), i Deipnosofisti (banchetto dei sofisti), che è una miniera incomparabile di dettagli gastronomici. In questo libro, infatti, troviamo un vero e proprio vademecum sulla cucina: dalla lepre al tonno, dai piselli alle anguille, dall’aragosta al pesce spada.

I pasti dei Greci, in età storica, erano tre al giorno: uno leggero al mattino, l’Ariston, ed altri due più consistenti, il Defeion a metà del giorno, ed il Dorpon a fine giornata. Ogni banchetto iniziava con il rito dell’offerta di ringraziamento agli dei: il padrone di casa, dopo essersi purificato le mani con acqua, gettava sul braciere pugni d’orzo, sangue e ciuffi di pelo di un vitello sacrificato e vi versava del vino. Terminata questa funzione propiziatoria, i servi ponevano vicino ad ogni commensale un recipiente con il pane ed una coppa per bere il vino liquoroso allungato con acqua, e poi iniziavano a servire le vivande. Nelle riunioni conviviali non sempre vi era un padrone di casa, perché spesso queste erano organizzate da alcuni amici che si riunivano per mangiare portando ciascuno, in un canestro, cibi già cotti ed il vino. Questi simpatici simposi erano, appunto, denominati I pranzi del panierino, ed è questo piccolo recipiente di vimini, la “spyris”, che a volte, vediamo appeso ad un chiodo in alcune raffigurazioni di cene.

I menu dell’epoca erano variati, composti da minestre, pesce, carne, uova, legumi, formaggio fresco e stagionato e, dulcis in fundo, dai dolci a base di miele, di noci, di latte e di farina, e dalle focacce attiche a forma piramidale. I dolci venivano serviti assieme a ricchi vassoi di frutta al termine di ogni pasto e durante il simposio, che era la parte più importante e gaia del banchetto, quando il vino scorreva a fiumi ed i convitati, allegri per le libagioni, cantavano gli skolia, brevi e briosi versi affini ai ditirambi. Socrate criticava gli opsofagi (ingordi) e diede delle regole di galateo sul modo di comportarsi a tavola, definendo la cucina un’arte.

 

[fonte: https://www.ilcasalediemma.it]

Le arancine di Montalbano
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Si dice arancini o arancine? Qual è il vero nome della deliziosa palla di riso panata e fritta, da molti considerata l’emblema della gastronomia palermitana e, più in generale, siciliana? L’approdo di questa antica pietanza agli onori della letteratura, attraverso le pagine di Andrea Camilleri (Gli arancini di Montalbano) non ha certo risolto l’annosa tenzone.
Camilleri sembra accreditare la versione al maschile, diffusa in tutta Italia, quanto meno per uniformarsi all’uso comune. Ma per lo storico palermitano Gaetano Basile non ci sono dubbi: il nome di questa leccornia deriva dalla sua somiglianza morfologica con le arance che, fra parentesi, costituiscono il prodotto d’eccellenza nella Conca d’Oro. E poiché l’Accademia della Crusca ha da lungo tempo stabilito che “aranci” sono gli alberi e “arance” i frutti, non c’è dubbio che il pasticcio di riso, nel palermitano, venisse chiamato arancina e che la deformazione al maschile nelle altre provincie siciliane sia dovuta a un errore. Ma se è vero che l’Italiano, come tutte le lingue vive, si evolve continuamente in conseguenza di modifiche nell’uso delle parole, se è vero che i dizionari prendono sistematicamente atto di queste trasformazioni che nessuno può correggere ex cathedra, la questione pare quanto meno oziosa: gli italiani hanno deciso di chiamarli arancini, e nessun danno potrà derivarne per le sorti della nazione. Meglio concentrarsi sulla storia e sulle caratteristiche di questa pietanza.

Per dire, innanzitutto, che l'origine degli arancini di riso risale alla dominazione saracena in Sicilia. Per la dieta degli arabi, il riso era un alimento fondamentale. Durante i banchetti, al centro della tavola, veniva collocato un ampio vassoio carico di riso aromatizzato con zafferano e arricchito da verdure, carne e altri aromi. I convitati potevano servirsi allungando una mano. Era, questa, l'originale composizione degli arancini, in mancanza dei pomodori che dovevano ancora essere importati dalle Americhe.

La panatura fu un'invenzione geniale, utile a rendere “trasportabile” il pasticcio di riso. Muniti di una croccante corazza dorata, ottenuta mediante la frittura, gli arancini divennero cibo da viaggio, in grado di resistere abbastanza bene qualche ora senza deteriorarsi. Qualcuno attribuisce la bella pensata a Federico II, il quale era particolarmente ghiotto di riso e non voleva privarsene durante le lunghe battute di caccia. Ma lo stupor mundi, che secondo i suoi estimatori sarebbe stato artefice di mille e mille invenzioni, aveva probabilmente altro a cui pensare.

Di fatto il ripieno conobbe una lenta evoluzione (proprio come quella linguistica) fino ad accogliere il pomodoro nell'Ottocento, quando questo ortaggio fece la sua comparsa inizialmente sulle tavole dei nobili. Mentre l'uso di insaporire e colorare il ripieno con la salsa di pomodoro si affermava, talvolta al punto da sostituire nell’impasto il costoso zafferano come nel supplì romano, la fama (e il profumo) degli arancini si spandeva in tutta la Sicilia, dando luogo a un inevitabile processo di differenziazione su base locale.

 

[fonte: www.cercaturismo.it]

La cannamela

[Tecnica di estrazione dello zucchero: incisione di scuola fiamminga – Jan van der Straet (Stradanus), 1580-1605ca – British Museum]

8.8.3 la.cannamela

La canna da zucchero, una pianta originaria dell’Indonesia e della Nuova Guinea, si è diffusa gradualmente in Indocina e da lì in tutto il Medio Oriente, dove già i persiani ne facevano uso. La conoscenza di questo prodigioso vegetale in grado di “produrre un miele che non ha bisogno di api”, come riportato anche nelle memorie di Alessandro Magno, si diffuse presto tra i popoli arabi, che ne affinarono la lavorazione ed iniziarono ad utilizzarlo nella loro famosa tradizione dolciaria.
Ed ecco come la canna da zucchero, o cannamela, fu introdotta in Sicilia. Al loro arrivo in una nuova area, i coloni arabi portavano sempre alcune delle piante da loro utilizzate quotidianamente. Alla dominazione araba dobbiamo infatti arance, limoni, melanzane, carrube, cotone, riso, pesche, albicocche e, appunto, canne da zucchero. La coltivazione e la lavorazione di questa pianta è attestata dagli scritti di Ibn Ankal, in cui si legge: Lungo la spiaggia, nei dintorni di Palermo, cresce vigorosamente la canna di Persia e copre interamente il suolo; da essa si estrae il succo per pressione.
Dopo la dominazione araba la produzione di zucchero in Sicilia continuò, ma solo in piccole quantità, sufficienti al fabbisogno della corte dei re Normanni, i quali fecero costruire dei nuovi “trappeti” (gli impianti di lavorazione della canna da zucchero) nei pressi di Palermo e Monreale. Durante le crociate, con l’importazione dello zucchero da parte di genovesi e veneziani, da loro chiamato “sale arabo”, la domanda di questo bene di lusso crebbe rapidamente. Tutti i nobili d’Europa iniziarono ad acquistare il prezioso zucchero, che esponevano sulle loro tavole come segno di potere e ricchezza.

Vista la crescente domanda, il sempre lungimirante Federico II di Svevia dispose la creazione di nuove coltivazioni ed impianti di produzione in tutta la Sicilia, una delle pochissime zone in Europa con il clima ed il terreno adatto alla coltivazione di piante provenienti dai tropici. La canna da zucchero, infatti, è tutt’altro che semplice da coltivare. Richiede alte temperature tutto l’anno, enormi quantità d’acqua e parecchio tempo per raggiungere il grado di maturazione perfetto. In Sicilia le condizioni climatiche non sono proprio ideali, dato che solo in estate la temperatura si mantiene costantemente sopra i 20°, quelli necessari a far crescere la cannamela. Nonostante ciò, gli inverni non troppo rigidi e l’abilità dei coltivatori permettevano di ottenere delle canne mature alte circa un metro e mezzo. Un risultato sufficiente a dar vita ad un commercio redditizio.

Gli impianti di lavorazione iniziarono a fiorire su tutta la costa settentrionale, dalla zona di Balestrate (dove appunto sorge il comune di Trappeto), fino a raggiungere Palermo, nei pressi di Ponte Ammiraglio, Falsomiele (da qui il suo nome), Acqua dei Corsari, Villabate, Bagheria, Altavilla, e così via sino a Messina. Praticamente ovunque ci fosse un fiume sorgeva una coltivazione oppure un impianto di lavorazione. Perché come detto prima la canna da zucchero ha bisogno di un’enorme quantità d’acqua per crescere. Inoltre la prima fase di lavorazione si basa sulla spremitura delle canne, che si svolgeva in mulini alimentati appunto da fiumi e torrenti.

Insomma, nonostante le enormi difficoltà e l’elevato costo di produzione, molti nobili siciliani decisero di dedicarsi alla produzione di questo autentico oro bianco, che veniva poi venduto a carissimo prezzo in tutta Europa a scopo medicinale o come dolcificante. Il processo di produzione iniziava dalle piantagioni, dove le piante venivano irrigate almeno 3 volte a settimana, soprattutto nel periodo estivo, quando registravano la maggiore crescita. Dopo 3 o 4 anni, quando le canne raggiungevano la giusta maturazione, venivano raccolte e trasportate agli impianti di produzione, spesso tramite piccole imbarcazioni che facevano la spola tra i porticcioli costruiti appositamente nei pressi delle piantagioni e dei trappeti. Qui le canne venivano macinate con delle mole di pietra e poi lasciate a decantare in un contenitore vegetale, prima di essere spremute “a vite”, con un processo manuale simile a quello per la produzione del vino. In seguito il succo veniva cotto e asciugato in apposite caldaie di rame (che venivano prodotte solo a Venezia) e poi filtrato in contenitori di terracotta dotati di piccoli buchi. Il processo veniva ripetuto per tre volte, sino a raggiungere un grado di purezza adatto alla vendita. Infine lo zucchero raffinato veniva imballato in una speciale carta azzurrina (da qui il colore carta da zucchero) e spedito in tutta Europa.

Tale industria fiorì fino al 1600 circa, quando inglesi e portoghesi iniziarono a produrre la canna da zucchero ai Caraibi ed in Sud America. Qui, grazie al clima favorevole, le canne da zucchero superavano facilmente i 3 metri d’altezza in breve tempo e grazie alla manodopera degli schiavi africani, i mercanti riuscivano ad importare enormi quantità ad un prezzo molto inferiore rispetto a quello normalmente pagato in Europa. Questa “concorrenza sleale”, unita alla successiva produzione di barbabietole da zucchero in Francia, Germania, Europa orientale e Russia, mise fine a questa industria siciliana e rese lo zucchero un bene diffuso anche sulle tavole della gente comune.

 

[fonte: www.palermoviva.it]

Il Marsala

[Il “metodo soleras” nelle cantine Florio a Marsala]

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Il Marsala è un vino liquoroso che deve la sua notorietà a due mercanti inglesi, i fratelli Woodhouse, che nel 1770, durante un viaggio in Sicilia per affari, scoprirono questo vino che ricordava gli Sherry, i Porto, i Madera e che avrebbe potuto trovare mercato in madrepatria. Dopo aver constatato il successo del Marsala spedito in Inghilterra, i fratelli Woodhouse avviarono in Sicilia una loro produzione. Tanto successo attirò un altro inglese, Benjamin Ingham, che aprì a Marsala una nuova cantina, affiancato in seguito dal nipote Joseph Whitaker. A loro si aggiunsero nel 1834 le Cantine Florio, che in soli venti anni si imposero sul mercato conquistando un quarto della produzione e rilevando successivamente il marchio Woodhouse. Nel 1904 la nuova società SAVI della Florio&c. era la maggiore produttrice di Marsala, che aveva ormai soppiantato in Italia il tradizionale Vermouth, e nel 1928 assorbe anche la Ingham&Whitaker restando fino ad oggi leader incontrastata del mercato mondiale.
Il vino Marsala presenta una grande differenziazione all’interno della DOC in base a come viene prodotto, dando luogo a vini anche molto diversi tra loro. La prima distinzione da fare riguarda la colorazione: viene prodotto nei colori Oro, Ambra e Rubino. Per le prime due varietà vengono usati i vitigni Grillo, Catarratto, Inzolia, Damaschino e Nero d’Avola; per la varietà Rubino vengono impiegate principalmente Perricone, detto Pignatello, Calabrese, detto Nero e Nerello Mascalese.

Il sistema di vinificazione è complesso e dipende dalla varietà di Marsala che si vuole ottenere. Al vino base viene aggiunto un preparato detto “concia”, una miscela di mosto fresco reso infermentescibile dall’aggiunta di alcol e mosto cotto. I Marsala più pregiati sono invecchiati in botti secondo un antico metodo spagnolo detto solera, in cui i vini di diverse annate vengono costantemente mescolati con notevole evoluzione dei più giovani che di fatto risultano assorbiti dai più vecchi (il c.d. “vino perpetuo”).

 

[fonti: Corriere della sera, Florio]

Gli spaghetti prima di Marco Polo
  8.8.5 gli.spaghetti
La prima attestazione della pasta essiccata in Italia e dell’esistenza stessa dell’industria della pasta, si rintraccia nella descrizione della Sicilia tramandataci dal geografo arabo Idrisi al tempo di Ruggero II, nel XII secolo.
Nel Libro di Ruggero (Kitāb Rujārī) pubblicato nel 1154, Al-Idrisi, geografo di Ruggero II di Sicilia, descrive Trabia, un paese a 30 km da Palermo, come una zona con molti mulini dove si fabbricava una pasta a forma di fili leggermente arrotondati, evolutasi dal làganum di epoca romana, che successivamente prenderà il nome di vermicelli e in seguito di spaghetti, ma che al tempo era chiamata con il termine più generico di itrya (tuttora in uso anche per alcune altre tipologie di paste lunghe meridionali, chiamate con il vocabolo dialettale trija o tria), e che veniva spedita con navi in abbondanti quantità per tutta l’area del Mediterraneo sia musulmano che cristiano, dando origine a un commercio molto attivo, che dalla Sicilia si diffondeva soprattutto verso nord lungo la penisola italica e verso sud fino all’entroterra sahariano, dove era molto richiesta dai mercanti berberi.
«…la famosa fettuccina secca derivataci dalla Sicilia araba, che si produceva nel sud Italia…»
(Anna Martellotti, I ricettari di Federico, II, p. 95)
Verso la fine del XII secolo, i primordiali spaghetti siciliani, grazie agli intensi commerci che l’isola intratteneva con la parte peninsulare del regno, iniziarono a diffondersi sempre di più ad Amalfi e a Napoli e poi, tra il XIII e il XIV secolo, a Salerno; luoghi in cui acquisiranno definitivamente il loro aspetto e le tecniche di lavorazione ed essiccazione attuali.

Nello stesso periodo, anche a Gragnano, comparirono i primi pastifici artigianali, i quali ebbero più fortuna rispetto a quelli di Salerno. Gragnano ampliò la sua produzione con l'assorbimento quasi completo dell'intera fabbricazione amalfitana. Si ampliò e si perfezionò l'industria della pasta secca su grande scala, realizzata con semole di grano duro macinate in zona e avvalendosi di torchi per la trafilatura della pasta sempre più adeguati. I terreni gragnanesi erano ideali per la produzione di tale alimento grazie al loro microclima composto da vento, sole e giusta umidità. Nel XVII secolo Napoli fu colpita da carestia e questo favorì ancor più il consumo della pasta secca, e in particolar modo degli spaghetti.

Agli inizi del XIX secolo, a Napoli, così come in altre zone della Campania, prese avvio una prima meccanizzazione nella produzione delle paste alimentari.

Nell'opera del poeta e commediografo napoletano Antonio Viviani, Li maccheroni di Napoli pubblicata nel 1824, compare invece per la prima volta il termine spaghetti (inteso come diminutivo-vezzeggiativo della parola ''spago'') in riferimento a questa tipologia di pasta, nome che perdurerà nel tempo, fino all'attualità, e che andrà a sostituire il più generico maccheroni (o maccaroni), ed il termine vermicelli (che rimarrà in uso quale sinonimo di spaghetti di maggior spessore), nomi con i quali lo stesso alimento era apostrofato in fonti letterarie anteriori; in questa stessa opera vengono anche illustrate le diverse fasi della lavorazione di questo formato di pasta.

 

[Fonte: Wikipedia]

Le cassate
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La storia dell’origine della cassata conduce secondo un’opinione diffusa ma non provata alla dominazione araba in Sicilia (IX-XI secolo). Gli arabi infatti avevano introdotto in Sicilia la canna da zucchero, il riso e gli agrumi, incrementato la coltivazione della mandorla, già introdotta in Sicilia dai Fenici.
Insieme alla ricotta di pecora, che si produceva in Sicilia da tempi preistorici, erano così riuniti tutti gli ingredienti base della cassata, che all’inizio non era che un involucro di pasta frolla farcito di ricotta zuccherata e poi infornato.
Nel palermitano è ancora molto usata la prima versione di questa torta di ricotta, denominata Cassata al forno, priva della classica decorazione con canditi e pasta reale (o pasta di mandorle). È un involucro di pasta frolla che contiene all’interno la crema di ricotta di pecora zuccherata con gocce di cioccolato fondente e piccolissimi pezzetti di canditi (arancia), cotta in forno e poi cosparsa di zucchero a velo.
Nel periodo normanno, con l’invenzione da parte delle monache del Convento della Martorana a Palermo della pasta di mandorle, un impasto di farina di mandorle e zucchero con cui sono fatti i frutti di martorana, colorata di verde con estratti di erbe, si sostituì il precedente involucro di pasta frolla con un involucro di pasta reale che circonda gli strati di pan di spagna e di crema di ricotta. Si sarebbe passati così dalla cassata al forno a quella composta a freddo.

Di certo la cassata è documentata soltanto nel XIV secolo, quando il termine "cassata" appare per la prima volta nel Declarus di Angelo Sinesio (1305-1386).. Durante il barocco vennero aggiunti la decorazione con canditi, già conosciuti in Sicilia da secoli, ed introdotta la glassa di zucchero che avvolge tutto il dolce a conferirle l’aspetto familiare odierno.

Inizialmente la cassata era un prodotto della grande tradizione dolciaria delle monache siciliane ed era riservata al periodo pasquale. La decorazione caratteristica della cassata siciliana con la zuccata fu introdotta nel 1873 (in occasione di una manifestazione che si tenne a Vienna) dal pasticciere palermitano cav. Salvatore Gulì, che aveva un laboratorio nel centralissimo corso Vittorio Emanuele a Palermo.

 

[Fonte: Wikipedia]

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