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webinar LA GRANDE BELLEZZA

Nel corso del secondo lockdown imposto durante la pandemia Covid-19, ed in occasione della III Rassegna virtuale Autunno all’italiana_Online, si è tenuto il 2.12.2020 un webinar nel contesto delle riunoni periodiche dell’iniziativa Friends of Leros Library. Il webinar era realizzato dal S.G. quale breve introduzione al capolavoro di Sorrentino La grande bellezza, presentato con sottotitolatura in greco nella sezione L’ultimo Sorrentino della Rassegna online.

Riportiamo alcuni spunti della relazione con i clip che la illustravano.

Clip #1_Tevere

Il primo livello di lettura è ovviamente Roma, la sua grande bellezza.
E non può sfuggire l’immediato riferimento a La dolce vita di Fellini, con cui il film condivide la città, i VIP, il protagonista (un giornalista, cioè). Jep si presenta ricordando il suo arrivo nella capitale su un lungotevere (quasi) deserto, sulle note di The Lamb, opera corale di John Tavener del 1982 per l’omonima poesia di William Blake del 1789.

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Clip #2_Incipit (Gianicolo)

La Roma che funge da affresco in sottofondo, dicevamo; la Roma del Rinascimento, la Roma dei Papi, indifferente e seducente, che osserva distaccata (ed un po’ disgustata…) la fauna umana che si agita tra le sue vecchie pietre, le sue statue, i suoi palazzi, i suoi capolavori.
Ma non è che un magnifico scenario, un recipente utilizzato sì per sedurre lo spettatore, ma che resta ben distaccato dal contenuto umano che la abita, che non interagisce con lei. Ben differente dalla Roma di Fellini. Un esempio: Anita Ekberg che fa il bagno nella Fontana di Trevi. Oppure: Mastroianni che incontra il padre di notte in un caffé di Via Veneto pullulante di vita; mentre Jep Gabardella passeggia di notte in una Via Veneto deserta…

(Il fontanone dell’Acqua Paola – David Lang: I lie, 2001)

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Clip #3_Il party (La colita)

Ma se togli il magnifico sfondo della Roma classica, la Roma romana, e della Roma rinascimentale, la Roma dei Papi, se togli le feste (che puoi immaginare a Roma, ma non a Parigi o Londra, e certamente non ad Atene), non resta che la vacuità della Fiera delle Vanità, l’autoreferenzialismo, il mondo chiuso del Potere, intellettuale e mondano che affianca quello politico.

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Clip #4_La terrazza

Il secondo livello di lettura è rappresentato dalla satira sociale che affiora ripetutamente in numerose scene: quella del party, quella della terrazza (un omaggio a Scola), quello della Santa. I saloni “intellettuali” parigini sono stati oggetto di descrizione satirica già nel XIX sec (Rousseau, Les confessions, 1889: “la morale du bilboquet”), nell’anteguerra (Hemingway), nell’immediato dopoguerra (Nimier); quello di Sorrentino stigmatizza il personaggio “radical-chic” impersonato da Stefania, e si guarda allo specchio con amara indulgenza: “Siamo tutti sull’orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, prenderci un poco in giro…
Alla scena partecipa anche il personaggio “felliniano” di Dadina, la direttrice del giornale di Gep, che ricalca la Reine Zabo di Malaussène, il capro espiatorio di Pennac.

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Clip #5_La Santa: baciamano

E la Fiera delle Vanità non poteva ovviamente risparmiare la Chiesa (tutte le Chiese…), con la scena del baciamano a Suor Maria La Santa, quasi una parodia di Madre Teresa di Calcutta, nello splendido sottofondo Early Music della monodia Beata viscera di Pérotin (Magister Perotinus, 1160-1230 ca). E con il mondanissimo Cardinal Bellucci che si vanta con il suo vicino porporato: – Domani avrò l’onore di cenare con lei. – Dal Santo Padre? – No, da Jep Gambardella.

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Clip #6_Il funerale

Ancora uno splendido pezzo di musica, contemporanea stavolta (Preisner: Requiem for my Friend – Dies irae, 1998), fa da colonna sonora nella scena del funerale, a sottolinearne due momenti-clou. Ma ecco che passiamo dal secondo livello di lettura, quello scettico e ironico, ad un terzo livello, quello del lato umano del personaggio.
Subito prima di questa scena, Jep aveva spiegato a Ramona come “Il funerale è l’evento mondano par excellence […] Non bisogna mai piangere, perchè non si deve rubare la scena ai parenti”. Ma dopo aver fatto le scenografiche e dettagliatamente previste condoglianze a Viola (Sappi che nei prossimi giorni, quando ci sarà il vuoto, potrai sempre contare su di me, si contraddice e cade nel sentimentalismo, piangendo vistosamente mentre regge la bara.

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Clip #7_Prima volta di Jep

Il terzo livello di lettura spicca in scene come questa, sottolineata dalle struggenti note del My Heart’s in the Highlands del preromantico scozzese Robert Burns (1759-1796) nell’arrangiamento del compositore Arvo Pärt (Estonia, 1935). Il personaggio che impersona snobismo e vacuità intellettuale, e che tuttavia le fustiga guardando ironicamente se stesso ed il suo mondo dall’esterno, lascia talvolta intravedere sofferenze nascoste con pudore.

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Clip #8_Maestro cinema [scena tagliata_1]

L’intervista al Maestro del cinema, che cita Manoel de Oliveira, regista portoghese (1908-2015) che inizia a girare film ulrasessantenne al ritmo di quasi un film all’anno, dirigendone tre dopo i centi anni d’età.

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Clip #9_Madame Ardant [scena tagliata_2]

L’incontro notturno con Fanny Ardant (La femme d’à côté – François Truffaut, 1981) sulle note di The Beatitudes – Vladimir Martynov, 1998.

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Clip #10_Scena finale

Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla. Bla. Bla. Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco.

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Citazione all’incipit del film

Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione.
Tutto il resto è delusione e fatica.
Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario.
Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato.
È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia.
Lo dice Littré, lui non sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi.
È dall’altra parte della vita.

Louis-Ferdinand Céline: Voyage au bout de la nuit, 1932

La grande bellezza – Paolo Sorrentino, 2013

Arrivato alle soglie della pensione dopo una vita spesa a raccontare il nulla dell’effimero ma con alle spalle anche un grande romanzo agli esordi che ne aveva annunciato una fulgida carriera poi ben presto abortita, il giornalista  tuttologo e re della mondanità Jep Gambardella esercita la sua professione di cronista sempre sulla cresta dell’onda saltabeccando da una festa all’altra per raccontare la deriva morale e antropologica di un paese che cerca di sopravvivere a se stesso in un delirio onnivoro di vacuità assortite. Sullo sfondo, una Roma bellissima che assiste indifferente a questo deragliamento amorale opponendo la statuaria meraviglia dei suoi tesori paesaggistici e artistici alla desolazione umana che la circonda.

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[official trailer _ greek subt]

[foto dal set: Gianni Fiorito]

Daniela Brogi: La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013) 

Between, III.5 (2013):  Figure del desiderio. Retorica, temi, immagini 
In discussione/In discussion: A cura di Niccolò Scaffai

Qual è il soggetto di La grande bellezza? Di cosa parla il film, mentre racconta come sta al mondo Jep Gambardella? Ripartiamo dalla traccia narrativa: Jep si è trasferito a Roma da giovane, in cerca di successo – come tanti, come tutti – per occupare il centro della mondanità e diventarne imperatore, tanto da essere distolto dalla cura del proprio talento (a venticinque anni aveva conquistato la fama col suo primo e unico romanzo L’apparato umano); quarant’anni più tardi, lo guardiamo vivere: essenzialmente senza far nulla, mentre divaga continuamente, tra feste in terrazza, incontri, passaggi onirici e camminate solitarie sul Tevere; intanto giunge la notizia della morte della donna di cui era stato innamorato da ragazzo. Qual è, dunque, la storia più vera messa in scena? Quella di un’ambizione implosa? Quella dello sperpero esistenziale della mondanità capitolina? Quella di una crisi d’identità e del tentativo di ritrovare una spiritualità? Quella di Roma?

 Proviamo a muoverci tra le varie ipotesi con minore affanno rispetto alle stroncature e alle accoglienze preventive che si sono buttate addosso al film, spesso al medesimo ritmo frenetico dei balli di gruppo in mezzo ai quali trionfa Jep.

Per dare attenzione al film che Sorrentino ha definito – direi con ragione – il suo lavoro più maturo, è opportuno ripartire da com’è fatta quest’opera.

La grande bellezza non è un film su Roma, e nemmeno è un remake de La dolce vita. Anzitutto perché il documentarismo e il rifacimento sono due moduli estranei alla poetica e al modo di lavorare di un regista che fin dagli esordi (penso al cortometraggio L’amore non ha confini, 1998) si è principalmente ispirato al grottesco e all’allegorismo, eleggendo Antonio Capuano a maestro originario. (Di questi aspetti, e di molto altro, parla la bella monografia su Sorrentino La maschera, il potere, la solitudine, scritta da Franco Vigni, Aska edizioni, 2012).

Per l’uso della macchina da presa, delle luci e dei suoni, per il lavoro del montaggio e la relativa costruzione del tempo del racconto, nonché della posizione del protagonista rispetto allo sfondo, La grande bellezza è un film che persegue in maniera perfino troppo rigorosa un paradossale progetto di impersonalità, impegnandosi a respingere e a impedire a tutti i costi l’effetto classico della messa in prospettiva, tanto nel senso della ricostruzione organica di uno sguardo unico e armonioso sulle cose, quanto nel senso della possibilità di definizione di un bilancio individuale. Per Jep, come per l’opera che lo narra, lo sfondo in cui vive è imprescindibile, eppure non sembra né interessante né necessario, perché il punto di fuga non è nella tela del racconto, né si fissa in una trascendenza a cui guardare; le situazioni sono quello che sono: l’identità della storia, il “Je”/Jep, è formata da chi e cosa accade all’io di frequentare e di incontrare per caso. La voce over con cui il protagonista osserva con distacco la vita – come faceva anche Titta di Girolamo ne Le conseguenze dell’amore (2004) – non funziona, tecnicamente, da affondo nell’interiorità di Jep. Le inquietudini, il malessere, in qualche modo (perché non è patologica ma di fatto c’è) persino l’insonnia che lo affratella a tanti altri personaggi di Sorrentino: tutto questo mondo oscuro è messo al di fuori dell’individualità emotiva, è spostato sull’esterno (la maggior parte del film è girato di notte), e viene lasciato esistere senza commento, diventando spazio drammaturgico grazie alle scenografie teatrali, all’uso delle luci e all’interpretazione di Servillo, che è il volto estremo dell’apatia, maschera assoluta di espressiva inespressività; altre volte invece la vita dell’anima si palesa attraverso la rêverie in medias res, senza intermediazioni narrative. In un certo senso, il film tenta di essere quell’opera sul niente che voleva scrivere Flaubert, a cui del resto si rimanda due volte nel film. Mentre anche il titolo si sottrae a un’interpretazione unica, perché per un verso ha un significato letterale riferendosi a Roma, la diva più inseguita di tutte, la capitale mondiale dei tramonti spettacolari, “grande” nel senso di monumentale, di una bellezza che incombe, dà i brividi e pretende venerazione, fino a uccidere («ROMA O MORTE» è la prima frase, incisa su marmo, che leggiamo) – come nella prima scena del turista giapponese colto da un infarto al Gianicolo. Per l’altro verso, come racconta la seconda scena di apertura del film – quella della festa di compleanno di Jep – La grande bellezza è anche un titolo antifrastico, usato cioè per rivelare la “grande bruttezza”, per raccontare, come nella bellezza in disfacimento delle nature morte barocche, la vanitas vanitatum, la fatica di un mondo che fa perdere un sacco di tempo e che «accoglie tutti come un grande catino» (P. Sorrentino, Hanno tutti ragione, Feltrinelli, 2010, p. 290), dove si confondono, fermentando l’uno nell’altro, alto e basso, grandezza e meschinità, musica sacra e ritmo techno, Proust e Ammanniti; dove il tragico finisce in una pernacchia. Ogni cosa e ogni persona diventano una caricatura e recitano la propria parte: «tutta questa gente non sa fare niente»; non importa che si tratti di una ex soubrette televisiva, di un cardinale, o di una perfida altoborghese convinta di essere un’intellettuale solo perché dichiara di non avere la televisione da vent’anni; il disfacimento è trasversale, con un sottofondo permanente di coazione alla cacofonia (Roma-Romano-Ramona) che non fa condoni al blasone di classe o alla vecchia commedia delle apparenze.

In mezzo a questa terra desolata, i residui di esperienza sentimentale si consumano, di conseguenza, come attimi di riavvicinamento, ma sempre inscenato, alle radici – come nella scena surreale in cui la Contessa decaduta va nella reggia dove è nata, ora adibita a museo, e davanti alla teca contenente la sua culla ascolta da un citofono attaccato a una guida automatica a gettoni la storia del luogo e della sua nascita; e torna in mente pure Jep che parla in dialetto napoletano di quanto è buona la pizza di scarola con la colf filippina, o consuma le minestrine preparate da Dadina (Giovanna Vignola), l’amica nana, davanti a un gigantesco orso di peluche: tutte tracce di un mondo infantile anteriore ripreso però con ironia formale – e il discorso vale anche per i fenicotteri rosa sulla terrazza di Jep.

«Siamo l’unica coppia che si ama», dichiara il personaggio di Lello Cava (Carlo Buccirosso) che aveva fatto la sua prima apparizione nel film gridando tra le danze a una ballerina «T’chiavass’!» e che in un’altra scena scopriremo essere un cliente abituale di prostitute. Eppure Lello non mente del tutto, perché sdentata – con effetti grotteschi spinti fino al kitsch – non è solo la “Santa” (Giusi Merli) ricostruita sul modello di Madre Teresa di Calcutta, ma la capacità di afferrare e fermare, per via del racconto, l’esperienza autentica. L’ingenua contrapposizione tra realtà e finzione è narrata allora per quello che è: un bellissimo e ributtante trucco («trentacinque anni insieme e io appaio in due righe come un buon compagno»; «avete visto? - dirà Ramona di Roma - sembrava enorme e invece è piccola piccola»). Tutto è menzogna, anche quando il protagonista pare avvicinarsi a un momento di verità: «non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare» dice Jep camminando di notte a Piazza Navona, per spiegare la sua fuga dal letto su cui ha appena fatto sesso con Orietta (Isabella Ferrari), una ricca milanese malata di noia e di culto narcisistico della propria bellezza; ma sono parole che si sperdono, svuotate dalla progressione del racconto, perché Jep continuerà a vivere con la stessa pigrizia. (Tra parentesi: Orietta abita, con un’inverosimiglianza che è tanto più visionaria quanto più è mostrata soltanto nella sua muta ma espressiva evidenza, dentro alla cornice di spaventosa bellezza della Chiesa di Sant’Agnese in Agone: il medesimo luogo usato da Celentano in Joan Lui – come ricorda Fulvio Abbate, Roma: guida non conformista alla città, Cooper, 2007, p. 53 –, dove era diventata una chiesa sconsacrata adibita a discoteca).

In fondo, persino Romano (Carlo Verdone), quando comunica a Jep la sua decisione di abbandonare Roma per la delusione, in una certa misura mente, perché, come avevamo impercettibilmente saputo in una scena precedente, nel paese dove farà ritorno ha avuto un’avventura con un’amica della sorella a cui, chissà, potrebbe forse sperare di aggrappare la sua malinconica ricerca della bellezza. La nostalgia, se non la si prende con ironia, come svago, è una baracconata: una necessaria baracconata. (« Che farà adesso? » chiede Jep al vedovo di Elisa; « Quello che ho sempre fatto: vivere nell’adorazione di lei», replica Alfredo, che incontreremo dopo una ventina di scene con la sua nuova moglie).

Due circostanze, tuttavia, sembrano interrompere l’eterna ripetizione della vita di Jep: l’occasione di una riemersione del passato, attraverso la notizia del decesso di Elisa, la ragazza amata in gioventù; e l’incontro, e la morte, di Ramona (Sabrina Ferilli), una spogliarellista tanto bella quanto enigmatica per i suoi sguardi di sofferenza. Entrambe le figure si muovono nella storia come due fantasmi, e aumentano, anziché chiarire, l’effetto di opacità dell’insieme, rafforzando il senso che i destini umani, e la narrazione che provasse a contenerli, sfuggano continuamente alla pretesa di una sistemazione unica, capace di comprendere o addirittura di risolvere le scuciture attraverso le quali la vita si trasforma in destino.

Da questo punto di vista, Jep Gambardella, come tutti gli altri protagonisti della filmografia di Sorrentino, è una grande figura di solitudine, completamente scollata dal mondo circostante, oltre che da sé stessa. Ma il punto da cui si sceglie di raccontare e esprimere questa condizione non è l’introspezione individuale che canta l’angoscia della mancata esperienza della bellezza (altrimenti sarebbe un film sul personaggio interpretato da Carlo Verdone), bensì lo sfondo circostante di involontario eppure implacabile cinismo, il nulla, il nastro di indolenza su cui scorre, consumandosi per logoramento, la fallita sincronia tra mondo interno ed esterno, tra l’ansia della bellezza e il tempo (« Mi sento vecchio » || « Giovane nun sei »). Per rendere questo effetto La grande bellezza si serve di due espedienti particolarmente efficaci: anzitutto la composizione per ellissi, che elimina dalla scena le spiegazioni d’intreccio (come ha fatto Jep a diventare così ricco e potente?), o le situazioni di pathos eclatante (per esempio la mancata paternità, o la morte di Ramona), e disarticola il racconto, eliminando spesso i raccordi, e procurando da un lato l’idea della ripetizione e dello sperpero quotidiano che disturba continuamente la vita; e, dall’altro lato, l’effetto della memoria che lavora sotto la coscienza di superficie (per esempio il ricordo della prima volta con Elisa, spezzato e recuperato in due scene diverse e distanti).

L’altra soluzione attraverso cui è resa questa esistenza inattiva, fatta di confusione perpetua tra interno ed esterno, passato e presente, è forse uno dei tratti più forti del cinema di Sorrentino: la saturazione visiva del racconto, intesa non come affermazione prepotente e drammatica dello sguardo soggettivo ma, al contrario, come forma di narrazione della catastrofe in una prospettiva antiromantica e antiromanzesca, cioè senza sviscerarne le cause, ma presentandone le manifestazioni. Tanto il grottesco caricaturale quanto l’onirismo visionario (assecondati da un uso altrettanto straniante della colonna sonora) accrescono il potenziale narrativo della scena, senza spiegare, ma procedendo per sovraccarico e condensazione; per esempio, nel pianto di Jep mentre trasporta la bara di Andrea, si scarica anche la tensione della morte di Ramona, di cui si avrà la notizia definitiva nella scena successiva, ma impersonalmente: senza che ci sia Jep e attraverso una veloce inquadratura del padre di Ramona - uno dei tanti genitori, in questo film, che perdono i figli.

Elisa e Ramona sono le figure di un passato come segreto, fantasmi di una possibilità prodigiosa di felicità compiutasi in un tempo attimale e irrecuperabile («E ora, chi si prende cura di te?»); sono la grande bellezza delle situazioni che per spreco di tempo non abbiamo vissuto pienamente, se non per un momento, e che non rivivremo più, ma cercheremo per sempre nell’addizione delle singole immagini che compongono un’autobiografia, come racconta la scena in cui Jep sfila commosso davanti alla sequenza delle migliaia di foto, divise per cinquantacinque anni, scattate al medesimo uomo in ogni giorno della sua esistenza. Il rimando più significativo a Fellini (tra i molti omaggi di inquadratura al suo film Roma), potrebbe essere, allora, quello all’episodio riportato da Sorrentino in Tony Pagoda e i suoi amici (Feltrinelli, 2012, p. 61): «Il grande regista, in un momento non facile, aveva preso a incontrare psicanalisti. || A ciascuno si presentava cortese, si sedeva di fronte, estraeva una foto di se stesso a tredici anni e, con la voce candida che ce lo aveva fatto amare, diceva pacato mostrando la foto: - Dottore, io voglio tornare a questa foto. Lei mi può aiutare? - ». Il titolo del film, a questo punto, non fissa soltanto un’immagine estetica, o morale, ma un’esperienza del tempo e dei suoi «incostanti sprazzi di bellezza», come dirà Jep uscendo di scena e dando inizio al suo romanzo. Il passo di Céline usato sulla soglia iniziale («Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. […] è dall’altra parte della vita» acquista significato pieno solo se recuperiamo il dialogo che intrattiene con la soglia finale, quando Jep dice «Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove», ovvero accetta, come il suo autore, di stare al di qua dell’illusione di oltrepassamento, di non cercare più la grande bellezza pensando alla vita come a un “apparato”, cioè una macchina organizzata per uno scopo unico, ma si occuperà del silenzio e del sentimento sotto il chiacchiericcio e il rumore.

La biografia di Jep, come quella degli eroi che lo hanno preceduto, non sarà un racconto centrato sull’io, ma un collage di fatti autobiografici, in maniera molto simile a quanto era stato fatto in un libro che, tra i tanti riferimenti letterari presenti ne La Grande Bellezza, è probabilmente il testo citato più sommessamente ma in realtà più presente di tutti gli altri: Nadja (1928), di André Breton (1898-1966), scritto nei medesimi anni dei manifesti surrealisti. Nadja è una narrazione autobiografica antiorganica, che raccoglie le divagazioni frammentarie, squarci memoriali e eventi accaduti all’io narrante in contemporanea con l’incontro, a Parigi, con una donna. (Realmente esistita: sarà internata in manicomio poco tempo dopo la fine della storia con Breton). Nadja è molto bella, di salute debole, e inafferrabile. Il libro parte dalla domanda che Jep Gambardella riporta distrattamente conversando sulla terrazza con Trumeau (Iaia Forte): «Chi sono io? C’è un romanzo che comincia così». Recuperiamolo quell’inizio, perché ricorda molto da vicino la traccia del film: «Chi sono io? Se per una volta mi rifacessi a un proverbio: in fondo potrei forse domandarmi semplicemente qui je hante: chi frequento, chi infesto. Debbo riconoscere che questa espressione mi porta fuori strada, in quanto tende a stabilire tra certi esseri e me rapporti più singolari, meno evitabili, più conturbanti, di quanto non pensassi. Dice molto di più di quello che vuol dire, mi attribuisce da vivo il ruolo di un fantasma, implica evidentemente un’allusione a ciò che ho dovuto cessare di essere per essere colui che sono» (A. Breton, Nadja, traduz. di G. Falzoni, 1972 - prefaz. di D. Scarpa, Einaudi, Torino 2007, p. 6). Al racconto dei pensieri del protagonista si alternano immagini: di monumenti, dei personaggi incontrati, dei disegni reali di Nadja: uno, in particolare, sconcerta per la somiglianza con la scena de La grande bellezza in cui Ramona passeggia per Roma, con Jep, indossando un curioso mantello. E colpisce il finale: «La bellezza sarà CONVULSA o non sarà» (p. 137).

È solo un trucco: il romanzo di Jep può avere inizio.

DOI: https://doi.org/10.13125/2039-6597/1001

Regista e sceneggiatore. Con la vittoria del Premio Solinas per la sceneggiatura di "Dragoncelli di fuoco", nel 1997, inizia la sua carriera nel cinema come sceneggiatore. Il suo primo lavoro è infatti il copione di "Polvere di Napoli" (1998) scritto in collaborazione con il regista Antonio Capuano. Contemporaneamente lavora anche per la televisione per cui scrive alcuni episodi della serie "La squadra".

Dopo aver girato due cortometraggi ("L'amore non ha confini", 1998, e "La notte lunga", 2001), debutta sul grande schermo nel 2001 con "L'uomo in più" che, presentato alla 58ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia e candidato a quattro Nastri d'argento, gli fa vincere il premio RAI International per la sceneggiatura.

Con questo film inizia il sodalizio artistico con l'attore Toni Servillo, che sarà protagonista della maggior parte dei suoi film successivi tra cui l'opera seconda "Le conseguenze dell'amore", unico film italiano presentato in concorso al Festival di Cannes nel 2004 e vincitore di ben 5 David di Donatello (tra cui quelli per miglior regia, soggetto e sceneggiatura proprio a Sorrentino) e di 4 Nastri d'argento (a lui va quello per il migliore soggetto).

Paolo Sorrentino si distingue per la cura con cui crea i suoi personaggi, sempre a metà tra l'estrema ordinarietà e la straordinaria stravaganza, grazie ai quali è arrivato al cuore di critica e pubblico che lo hanno proclamato tra i registi con più talento in Italia.

La stessa opinione si è fatta di lui il Festival di Cannes, sempre pronto a offrirgli la migliore vetrina per ogni suo nuovo film. E' qui infatti che presenta tutte le sue opere successive:

            "L'amico di famiglia" nel 2006 (film che in Italia ottiene il Nastro d'argento per il miglior soggetto); "Il Divo" nel 2008, vincitore del Premio della Giuria, con una storia che attinge per la prima volta alla storia contemporanea basandosi sulla vita del senatore Giulio Andreotti e che ottiene 16 nomination ai David di Donatello (aggiudicandosene 7), il Globo d'oro per la Migliore Sceneggiatura, 5 Nastri d'argento (due per Sorrentino: miglior sceneggiatura e regista del miglior film) su 10 candidature e la nomination all'Oscar per il miglior trucco;

"This Must Be the Place" nel 2011, suo primo film girato in lingua inglese (con Sean Penn protagonista) che qui si aggiudica il Premio della Giuria Ecumenica e poi in patria 6 David di Donatello (uno anche per la miglior sceneggiatura) e 3 Nastri d'argento (tra cui quello per il regista del miglior film);

"La grande bellezza" nel 2013 che non si aggiudica premi alla kermesse francese, ma spopola in tutto il mondo arrivando a vincere l'Oscar come miglior film straniero oltre a tantissimi premi nazionali (9 David di Donatello su 17 candidature e 4 Nastri d'argento su 9 nomination) e internazionali (tra cui un BAFTA, un Golden Globe e diversi premi EFA);

"Youth - La giovinezza" nel 2015, secondo film con un cast internazionale che vede protagonisti Michael Caine e Harvey Keitel, che a Sorrentino in seguito vale il Premio EFA come Miglior regista europeo e che in Italia vince 3 Nastri d'argento (tra cui quello per il regista del miglior film) e due David di Donatello, uno per il miglior musicista e uno per la canzone originale: il brano "Simple Song No. 3" (testo e musiche di David Lang) interpretato dal soprano Sumi Jo, che riceve anche la candidatura all'Oscar nella stessa categoria.

Sorrentino è inoltre autore dei libri "Hanno tutti ragione" (2010, finalista al Premio Strega) e "Tony Pagoda e i suoi amici" (2012).

Nel 2016 realizza la serie TV "The Young Pope", con un cast internazionale che vede Jude Law nei panni del complesso e contraddittorio Papa Pio XIII, al secolo Lenny Belardo. Le prime due puntate della serie sono presentate in anteprima alla 73ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, dove lo stesso Sorrentino e Jude Law hanno ricevuto il Premio Fondazione Mimmo Rotella.

[Cinematografo.it]

1998 - L'amore non ha confini - Sceneggiatura; Regia; Soggetto

2001 - La notte lunga - Regia; Sceneggiatura

2001 - L'uomo in più - Regia; Soggetto; Sceneggiatura

2003 - Le conseguenze dell'amore - Regia; Soggetto; Sceneggiatura

2005 - Sabato, domenica e lunedì - Regia (regia televisiva)

2006 - L'amico di famiglia - Regia; Sceneggiatura; Soggetto

2007 - Il Divo - Sceneggiatura; Regia; Soggetto

2010 - Napoli 24 - Regia

2011 - This Must Be the Place - Regia; Sceneggiatura

2013 - La grande bellezza - Regia; Soggetto; Sceneggiatura

2014 - Rio, eu te amo - Regia

2015 - Youth - La giovinezza - Soggetto; Regia; Sceneggiatura

2016 - The Young Pope - Regia; Sceneggiatura; Soggetto

2018 - Loro 2 - Regia; Sceneggiatura

2018 - Loro - Regia

2018 - Loro 1 - Regia; Sceneggiatura

2019 - The New Pope - Regia; Soggetto; Sceneggiatura

2019 - Mob Girl - Regia

2020 - È stata la mano di Dio – Regia

 

attore

2006 - Il caimano - Attore - Marito di Aidra

2009 - Di me cosa ne sai - Attore

2013 - Tutte le storie di Piera - Attore - Se stesso

2013 - Tre tocchi - Attore

2016 - The Young Pope: A Tale of Filmmaking - Attore - Se stesso

2016 - Cinque Mondi - Attore - Se stesso

Paolo Sorrentino, i cinquant’anni del ragazzo in più

Il compleanno di uno degli autori italiani più amati e celebrati nel mondo è l’occasione di un viaggio a ritroso agli inizi del giovane cineasta, dai primi tentativi fino al folgorante esordio con ‘L’uomo in più’.

Arianna Finos, “La Repubblica”, 31 maggio 2020

Paolo Sorrentino compie cinquant’anni, il ragazzo in più ne avrà sedici per sempre. Non si è mai tirato indietro, quando nel tempo gli hanno chiesto, ogni volta, di quella tragedia che gli ha portato via i genitori all’improvviso, uno scoppio di gas nella casa mentre lui era allo stadio a vedere Maradona.

Ma dalle risposte si capiva il sentimento di chi non riesce a esprimere lo sconquasso, il dolore. Forse, ha ragionato di recente, non è lontano il tempo in cui riuscirà a raccontarlo in un film. Intanto il suo cinema si riavvicina geograficamente – finito il set newyorkese con Jennifer Lawrence pentita di mafia in Mob – a Napoli, dove gli piacerebbe tornare a girare “perché non ci si libera per nessun motivo al mondo dall’origine, dalle proprie radici”. La sua rabbia è nata lì, dal quei sedici anni congelati. La fine della giovinezza. Da lì arrivano, ha realizzato negli anni della maturità, gli accessi di ira, certi modi bruschi sul set, le notti rancorose che lo hanno accompagnato a lungo. Per molto tempo lo ha accompagnato anche un sentimento di rivalsa, qualche parente che avrebbe voluto condannarlo a una vita da bancario, “la necessità di mostrare a un universo indefinito di persone che hanno attraversato la mia vita che ce la potevo fare anch’io”.

Una reazione anche nei confronti dei detrattori che sono aumentati in proporzione al successo internazionale e una teoria di premi, all'esordio folgorante con L’uomo in più che segna l'inizio del sodalizio con Toni Servillo, alla chiamata a Cannes per Le conseguenze dell’amore, poi con L’amico di famiglia e Il divo, vincitore alla rassegna francese del premio della giuria guidata da Sean Penn. E la straordinaria corsa di La grande bellezza, David, Nastri, Efa, Golden Globe, l’Oscar. I film in inglese, da This Must be the place con Sean Penn candido punk con un dolore sulle spalle, e Youth con Michael Caine. Il berlusconiano Loro, l’avventura seriale The young (e New) pope con Jude Law, Diane Keaton, Cécile De France e John Malkovich.

Una carriera sotto i riflettori, fin troppo raccontata. E allora il piccolo regalo è tornare al giovane e più sconosciuto Sorrentino, alle parole di quei tempi. Adolescente s’immaginava come un dandy napoletano cinico come il Tony Pagoda di Hanno tutti ragione, a ventuno mandava a Massimo Troisi una lettera schietta e candida chiedendo di lavorare con lui: “Mi auguro di poter fare cinema piuttosto che lavorare in qualsiasi altro campo con la mia futura laurea in economia e commercio”. Tre anni dopo, nel ’94, l’esordio in Un paradiso, film che dura meno di due minuti, scritto e girato con Stefano Russo: uno psicologo spiega in tv che prima di morire si rivedono i momenti importanti della vita, un uomo si suicida buttandosi da un cavalcavia, scorrono immagini di vecchie foto, poi la grande notte in cui ha cantato in un locale di karaoke, stonatissimo, Grande grande grande di Mina. Il co-regista lo ha reso visibile su Youtube.

L’ironia, lo sguardo, l’uso delle canzoni pop (tra cui Caffè nero bollente cantato da Fiorella Mannoia), sono già, ancora imperfette, caratteristiche di L’amore non ha confini: un guappo con un codino viene convocato da un boss-guru per uccidere il traditore e nel covo scopre che la moglie dell’uomo è il suo grande amore ragazzino. Il film è montato da Jacopo Quadri, prodotto da Indigo film (sui titoli di coda il ringraziamento anche alla Sacher film). Su Youtube confesserà nel 2007, Sorrentino, di non amare i corti (anche se poi ne ha girati di molto belli, basti pensare a La partita lenta): “Sono stato costretto perché mi fu chiesto da un produttore che voleva mettermi alla prova, ma non ho mai subito fascino del cortometraggio. E infatti non li so fare. Ne ho fatto un altro con Tele+ ma non è la mia forma, come non lo sono il teatro e documentario: ne ignoro le basi, mi piacerebbe invece scrivere. Da spettatore amo la regia con un suo peso, non quella in cui diventa invisibile, quella che si avvicina a un documentario”. Con Indigo e Tele+ ha girato La notte lunga, quella del parrucchiere delle dive Manolo ("il Sinatra del colpo di sole, il Che Guevara della permanente”) tra discoteche, la prima volta con la cocaina, sedute spiritiche di una vedova che vuole scoprire dove il defunto ha lasciato i soldi e il corteggiamento di una donna bellissima. Nel cast Roberto De Francesco, Chiara Caselli e Giovanni Esposito. Lui: "Manolo sul lavoro è un giaguaro, un uomo di infinita sicurezza". Lei: "Ho un debole per gli uomini che parlano di sé in terza persona". Lui: "E' una cosa che aiuta a definire meglio se stessi è vero, lo fanno anche Maradona, Sgarbi, Jean-Louis David". Tra gli altri corti: La primavera del 2020, l'Italia protesta, l'Italia si ferma, Quando le cose vanno male, L'assegnazione delle tende, La principessa di Napoli, La fortuna.

Ancora, tredici anni fa, raccontava: “Il mio percorso nel cinema è molto semplice, io sono autodidatta, ho studiato all'università Economia e commercio. Lo studio dell’economia è stato utile, sono solitamente testi ben scritti, originali, ho sempre avuto la sensazione che siano più utili dei manuali delle facoltà di lettere e filosofia, che sono i covi dei futuri cineasti. Sono stato fortunato perché quelli che scrivono di economia avrebbero spesso voluto creare romanzi e non ce l’hanno fatta, però usano uno stile pomposo e ieratico che è utile nelle sceneggiature, per gettare fumo negli occhi ai produttori”.

Ha vinto il Solinas per una sceneggiatura (Dragoncelli di fuoco, poi cambiato per motivi burocratici in Napoletani) che non è diventata un film: “E’ stato meglio così, era una commedia grottesca e ho capito dopo che è una materia molto pericolosa, scivolosa. Sembra facile, ma è la cosa più difficile, consente un grado di follia e libertà che invece al cinema devi saper controllare. Due anni dopo, la sceneggiatura L’uomo in più è invece riuscita a diventare un film". Due uomini legati solo dall'omonimia, si chiamano entrambi Antonio Pisapia, due vite parallele, due film in uno: "Le statistiche dell'epoca raccontavano che era difficilissimo per un regista avere l'occasione di girarne un secondo".

Presentato nella sezione Cinema del presente alla Mostra di Venezia nel 2001, il film vince il Nastro come regista esordiente e tre David di Donatello. L'uomo in più non è solo una tattica calcistica, "è il passaggio dal caos giovanile alla maturità. E sebbene non più giovanissimi è proprio questo che tentano i due protagonisti del film, fallendo compiutamente". Un film struggente, tra la malinconia e quell'amore per la vita che per Sorrentino è una componente essenziale, quella stessa qualità che gli farà amare profondamente il personaggio apparentemente ripugnante di L'amico di famiglia.

Sorrentino ama rivelarsi poco nelle interviste, di più nella finzione. “Nei miei film - diceva ai tempi di L’amico di famiglia -  ho sempre raccontato le cose che succedevano in casa, il rapporto con i fratelli, la quotidianità”. Regala i suoi ricordi al personaggio letterario di Settimio nel libro Gli aspetti irrilevanti, “i baci rumorosi della madre bellissima”, “il viso impaziente e stanco del padre”, il giro di giostra triste “montando un cavallo bianco di vetroresina scheggiata”. Settimio Valori è un “regista amatoriale di filmini controversi”, con “una tendenza spiccata e infantile all’esagerazione e il dono, o la condanna, alla malinconia”.

“Si direbbe che Settimio sa raccontare storie, ma anche questo non è vero. L’unica storia che vorrebbe raccontare è la sua, ma non ne ha il coraggio. Non per pudore, ma perché gli provoca un dolore indicibile”. Questa storia noi l'aspettiamo, con pazienza.

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