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IL GRANDE CRETTO DI GIBELLINA

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Un enorme sudario di cemento bianco ricopre una collina nella remota Sicilia occidentale. Si tratta sia di land art che di un memoriale alla città di Gibellina che fu devastata da un terremoto nel gennaio 1968. È un’opera dell’artista italiano Alberto Burri, che ha coperto le rovine della città con cemento bianco e fessure che funzionano come percorsi che si snodano attraverso un’area di circa 80 mila metri quadrati.

Il terremoto del ‘68

Tra la notte del 14 e 15 gennaio 1968 un violento terremoto colpì una vasta area della Sicilia Occidentale, la Valle del Belìce, compresa tra le province di Trapani, Agrigento e Palermo. Le conseguenze furono spaventose e disastrose, quasi tutti gli edifici (la maggior parte costruiti in tufo) furono rasi al suolo, più di centomila persone non avevano più una casa, interi paesi non esistevano più. Le vittime accertate ufficialmente variano, secondo le fonti da 231 a 370 morti. La macchina dei soccorsi si mosse lentamente, nessuna autorità amministrativa era preparata per un evento del genere, ci furono incomprensioni nella coordinazione dei soccorsi. La ricostruzione fu lunga e travagliata, portò con sé profonde trasformazioni urbanistiche, ambientali, sociali ed economiche. Interi paesi furono ricostruiti ex novo a decine di chilometri di distanza.

Un reportage dal passato

Gibellina, sulla carta geografica non c’era, adesso non c’è nemmeno in quel clivo giallo d’estate e bruno d’inverno che radunava intorno a tre chiese e tre piazze e mille case, mille porte. Cercarla sulla carta geografica adesso che non si riconoscono nemmeno gli usci di casa, ha meno senso ancora. Eppure, questo è stato un paese, con la sua gente, le sue storie. I terremoti coprono tante cose e ne scoprono tante altre, mettono a nudo un’infinità di abitudini, di affetti appartenuti gelosamente, svelano, o lasciano trasparire ciò che era un uomo da vivo e nascondono i morti nel fondo delle macerie, come se questa miseria contadina, bracciantile, operaia, questa secolare povertà quotidiana custodita nelle case di tufo, non fosse anch’essa da seppellire insieme con le sue vittime. Su questa tragedia vasta e misteriosa, silenziosa e urlante, che oggi ha radici nel fondo della terra, possiamo misurare tutti i sentimenti, dalla pietà al rimorso. È la gente del nostro paese e non l’abbiamo abbastanza conosciuta. In un altro angolo del paese stanno cercando qualcosa, è una sequenza di pochi metri, ma c’è dentro una vita intera, è la storia di un prodigio che stringe e allarga il cuore. [il reportage rai ci mostra una bambina che viene estratta viva dalle macerie dai soccorritori].
                                                                                                                                                                                                                                                                        [Sergio Zavoli]

La città di Gibellina pre-sisma

Gibellina fu il paese che pagò il tributo più alto in numero di vite, era un insediamento di un migliaio di abitanti, prevalentemente contadini, dell’entroterra siciliano, remoto e poco accessibile (non veniva riportato nelle cartine geografiche di allora). Tra l’opinione pubblica del tempo ci si interrogava sullo stato di abbandono e miseria in cui vigeva il paese, e in generale sulla Sicilia dell’entroterra.

La nuova Gibellina

La città di Gibellina Nuova è stata costruita ex novo ad una decina di chilometri dai ruderi del vecchio paese in cui Alberto Burri ha realizzato l’opera memoriale di land art Grande Cretto. Nel 1970 l’amministrazione guidata dal sindaco Ludovico Corrao scelse di accompagnare l’edificazione della nuova Gibellina con un ambizioso progetto di arredo urbano che l’avrebbe trasformata nel più grande museo a cielo aperto d’Italia. Artisti e architetti di fama internazionale furono invitati a riformulare l’aspetto della nuova città antisismica, attraverso una serie di interventi per lo spazio pubblico che comprendessero sia il riassetto urbanistico dei luoghi maggiormente rappresentativi della vita collettiva, sia la produzione di oltre cinquanta opere d’arte, sculture e installazioni da collocare in tutto il tessuto urbano. Le opere accolgono il visitatore sin dall’entrata in città, dove è collocata la Stella d’ingresso al Belice realizzata da Pietro Consagra nel 1981, considerata ormai il simbolo del territorio.

Il Cretto di Burri

Il Grande Cretto (inizio lavori: 1984, completamento lavori: 2015)

L’allora sindaco di Gibellina, Ludovico Corrao, si ritrovò impotente sulle scelte urbanistiche imposte dallo Stato, ma consapevole della loro bruttezza, e convinto che le case da sole non bastino a far rinascere il senso di comunità e di attaccamento, e che alla ricostruzione bisogna dare un senso altro in cui la bellezza sia motore e legante, chiama a raccolta artisti, intellettuali e uomini di cultura, per cercare di renderla più bella di prima. Corrao riesce a far venire a Gibellina Alberto Burri (1915 – 1995), famoso artista e pittore umbro, tra i figurativi italiani di maggiore fama del Novecento. Burri capisce fin da subito che nella nuova Gibellina, c’è ben poco da fare (ci sono già diverse opere realizzate), allora decide di visitare le rovine della vecchia Gibellina, e ne rimane profondamente scosso, e capisce che è lì, fra le rovine di quello che era il centro della vita di quelle persone, può lasciare un’opera a ricordo dell’evento e delle sue vittime.
Il Grande Cretto è un memoriale che racchiude e custodisce al proprio interno, in termini fisici e metaforici, la traccia del passato e della vita della comunità sconvolta dal sisma. L’opera, che sul piano formale riproduce la tipologia dei Cretti realizzati dall’artista negli anni Settanta, si estende in scala monumentale lungo il pendio della collina, sulle macerie della città. Il Cretto si compone di ventidue cubi di cemento bianco che rievocano la struttura delle abitazioni sottostanti: un labirinto che può essere percorso camminando tra gli spazi che separano i blocchi e ricordano le antiche strade del paese.

L’Artista

Alberto Burri (Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995)

Ufficiale medico dell’esercito italiano, durante la seconda guerra mondiale viene fatto prigioniero dagli alleati in Tunisia, e da lì portato in un campo di prigionia in Texas. Rientra in Italia nel 1946, e decide di non esercitare più la professione medica per iniziare quella di artista. Si trasferisce a Roma nel 1947 dove espone in alcune mostre romane le sue opere. Nel 1951 fonda insieme a Capogrossi, Colla e Ballocco il gruppo Origine con l’obiettivo di superare l’accademismo astratto. In questo periodo i soggetti preferiti da Burri sono i Sacchi, che dopo le mostre italiane, vengono esposti in varie città europee e americane. Dopo il 1957 Burri presenta i Legni, le Combustioni, i Ferri nelle mostre che si tengono in alcune città americane. Nel 1962 espone le prime Plastiche alla Galleria Malbourough di Roma. Artista anche per il teatro, realizza le scenografie per Spiritualis (La Scala, 1963), per Novermber Steps (Opera di Roma, 1972) e Tristano e Isotta (Teatro Regio di Torino, 1975). Negli anni ’80 Burri espone in tutto il mondo le sue opere, da New York, a Parigi, a Nizza e a Roma. Nella sua città natale si apre il complesso museale interamente dedicato a Burri (1990). Nel 1994 viene inaugurata la donazione Burri alla Galleria degli Uffizi di Firenze, che comprende oltre l’opera Bianco e Nero, tre serie di opere grafiche.

Nicolò Stabile: L’UTOPIA POSSIBILE DI GIBELLINA
“Qui non ci faccio niente di sicuro”.

Misura 270 per 310 metri. Ricopre come un sudario di cemento bianco le macerie del paese distrutto dal terremoto del 15 gennaio 1968. Al centro della Sicilia occidentale, in un territorio ad alta stratificazione culturale, sta a metà strada, in un ideale dialogo senza tempo di assoluta bellezza, tra le imponenti colonne della greca Selinunte, e la magnifica solitudine del tempio dell’elima Segesta.

È un’opera che si sottrae a qualsiasi tentativo di catalogazione. Letteralmente costruita con le pietre e le cose che furono strade, piazze, case, stalle, negozi, laboratori, scuole, chiese, ma anche un teatro all’italiana, un castello chiaramontano del XIV secolo… è il sepolcro e la matrice perduta di un piccolo paese del Sud, ricostruisce percorsi ideali, spaziali e temporali tra la memoria e il presente, tra i vivi e i morti. La sua storia è complessa. Iniziata nel 1979, non è ancora conclusa. Ha avuto un deus ex-machina, Ludovico Corrao, sindaco di Gibellina dal 1970 al 1994, che come Fitzcarraldo sapeva che chi sogna può muovere le montagne. Siamo alla fine degli anni Settanta. Mentre siamo scontando un surplus di pena che dura da un decennio in baracche gelide d’inverno e roventi d’estate, i nuovi centri urbani (alcuni, come Gibellina, lontani dai vecchi centri) cominciano a prendere forma. Sono stati disegnati a tavolino in un ufficio romano da un manipolo di urbanisti che pensavano (come hanno scritto nelle relazioni di progetto) di sradicare la mafia costruendo strade larghe per mettere distanza tra gli abitanti. Nessun ascolto delle istanze e delle esigenze delle comunità locali, anzi: per legge i Comuni vengono esautorati da qualsiasi potere decisionale.

Ludovico Corrao, impotente sulle scelte urbanistiche imposte dallo Stato, ma consapevole della loro bruttezza, e convinto che le case da sole non bastino a far rinascere il senso di comunità e di attaccamento, e che alla ricostruzione bisogna dare un senso alto in cui la bellezza sia motore e legante, chiama a raccolta artisti, intellettuali e uomini di cultura, per cercare di renderla più bella di prima.

Scrive Sciascia nel discorso che pronunciò a Gibellina il 15 gennaio 1988 per il ventennale del terremoto: ”Lo Stato italiano – bisogna pur dirlo – non era pronto né incline ad accogliere un’istanza di ricostruzione della miseria: si sperava forse, appunto, nella fuga, nell’abbandono, “nell’aprir bottega altrove”; e ne è dimostrazione il fatto che la cosiddetta legge del due per cento, la legge che devolve il due per cento della spesa per le opere pubbliche agli abbellimenti artistici, sia stata sospesa e invalidata per la ricostruzione di questi paesi. Vietata l’arte, vietata la bellezza: quasi si volesse che tutto fosse più brutto di prima, che la gente non riconoscesse e non si riconoscesse. Intenzione o inconscio desiderio o semplicemente carenza, nella classe di potere, di una sia pur vaga idea di ciò che abbellisce la vita e la fortifica, che più volte, qui intorno, è andata a segno; ma qui a Gibellina ha trovato un centro di resistenza. [Ludovico Corrao] ha dato insomma il senso che la vita non è altrove, ma che può essere anche qui”.

Gli artisti rispondono all’appello di Corrao e la nuova Gibellina, che lo Stato voleva più brutta della vecchia, si anima d’arte. Negli anni Ottanta diventa un laboratorio permanente delle arti, un crocevia di artisti, e un museo a cielo aperto. Corrao riesce a convincere anche il non facile Burri a venire a Gibellina. Succede nell’estate del 1979.

Burri arriva con tutti i suoi preconcetti sul Sud e i suoi abitanti. La nuova città non lo ispira, e non lo tenta l’idea di lasciare un’opera accanto a quelle di artisti che non ama: “Qui non ci faccio niente di sicuro”. Ma poi visita i Ruderi – deve avere sentito quel silenzio rotto solo da gracidare dei corvi, in quel paesaggio di colline che sconfinano fino al mare d’Africa – e quasi si commuove.

L’idea gli viene la sera stessa: “Io farei così: compattiamo le macerie, che tanto sono un problema anche per voi, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti un perenne ricordo di questo avvenimento”. Per poter realizzare i lavori, Burri sogna la partecipazione attiva e fattiva dei gibellinesi (solo molto tempo dopo gli arriverà all’orecchio, e sarà motivo di grande tristezza, che a molti il Cretto non solo non piace, ma da più d’uno è vissuto come una violenza).

Per reperire fondi, materiali, forza lavoro, Corrao s’inventa mille stratagemmi. Coinvolge persino l’esercito che presta cinque ruspe e forza lavoro. Opera una sorta di geniale e benevola concussione ai <danni< dei costruttori che in quegli anni realizzano opere pubbliche a Gibellina Nuova: chiede loro di donare la costruzione di un po’ di Cretto. E accettano, contenti e orgogliosi di farlo. Allo Stato non può chiedere aiuto: e lui da incarico ai tecnici del Comune di preparare un progetto in cui i lavori per il Cretto siano camuffati da <opere di sistemazione idrogeologica del vecchio sito urbano>. Lo stato ci casca e, raggirato dal genio di Corrao, diventa inconsapevole cofinanziatore del Cretto.

Nel 1985 la cosa inizia a prendere forma, a farsi spazio tra le macerie. Burri segue da lontano, attraverso l’amico Alberto Zanmatti. Zanmatti sarà il legame tra Burri e il Cretto di Gibellina. Ai tecnici e agli operai il compito di inventare soluzioni tecnologiche per tradurre quelle raccomandazioni in forma.

Qualche anno dopo, alla domanda se nel bozzetto fossero riportate anche le ondulazioni che caratterizzano le pareti del Cretto, Burri risponderà: “No, quelle devono crearle di volta in volta con le tavole e le lamiere… ma dico, devo insegnarglielo io il mestiere?”.

La mattina del 23 maggio 1987 Burri vede per la prima volta e ultima volta il suo Cretto: sembra deluso, non dice quasi nulla. Gli manca probabilmente il punto di vista dall’alto a cui l’avevo abituato la maquette. Gli manca, malgrado le dimensioni, quel senso di grandiosità che aveva immaginato. La vista dura meno di un’ora, appena in tempo per immortalare in uno scatto l’incontro tra l’artista e la sua opera.

Nel 1989 si fermano i lavori, all’80% del totale, per mancanza di risorse. Corrao riesce a farsi finanziare dalla Regione il completamento, ancora una volta presentando il progetto non come opera d’arte, ma come sedicente “parco urbano”. Ma non fa in tempo a far praticare la macchina burocratica. Dopo più di vent’anni la gente di Gibellina non lo vuole più sindaco, e nel 1994 Corrao non sarà più eletto. Chi verrà dopo di lui, scientemente, riuscirà a far perdere quel finanziamento e da allora per il Cretto inizia un lento abbandono.

Passano gli anni e il bianco diventa grigio. I ferri sotto la superficie arrugginiscono facendo staccare pezzi di cemento. Qualche piccolo crollo, distacchi, crepe. Nessuna manutenzione, a parte qualche pulitura dalla vegetazione che inizia a infestarlo. Ai Ruderi nessuno va quasi più, sempre meno le occasioni di riunirsi lì. Del Cretto quasi ci si dimentica. Anche Burri non ne parla volentieri. Come aveva previsto, morirà (nel 1997) senza averlo visto ultimato.

Poi sulle corona di colline che lo circondano, laddove fino a qualche anno prima c’erano giovani boschi, appare una batteria di pale eoliche. Il Comune pensa bene ci sia bisogna di un parcheggio, e lo realizza, a ridosso dell’opera, dello stesso cemento bianco: da lontano sembra una metastasi del corpo quadrangolare del Cretto. Con lo stesso materiale si ripavimenta il pezzo di strada provinciale che ne lambisce un lato, slabbrandone la forma. Nessuna levata di scudi contro questi macroscopici interventi pubblici che violentano l’idea di Burri. Vandalismo istituzionale.

L’idea di lanciare un appello a favore del Cretto, perché “si restaurasse e completasse e se ne assicurasse la conservazione a futura memoria”, mi venne un pomeriggio di inizio estate del 2010 parlando con Ludovico Corrao, già molto malato, ma non per questo rassegnato. Non poter vedere il Cretto finito era per lui motivo di grande tristezza. L’appello viene firmato da un centinaio di personalità dell’arte e della cultura e inviato al Ministero e all’Assessore regionale. Neanche due mesi dopo, in una nota congiunta del Ministero, il sottosegretario e l’assessore dichiarano che l’appello non rimarrà inascoltato. Il Ministero mette subito a disposizione per il restauro 1.100.000 euro dei fondi del lotto. La Regione prende tempo per quanto riguarda il completamento, l’assessore insiste perché si ricorra ai privati. Non riesco a farlo ragionare. Comincio a pensare che bisognerà inventarsi qualcos’altro…

Poi, il 7 agosto del 2011, Ludovico Corrao muore ucciso dal suo badante con un’esecuzione che sa di tragedia greca. Tre giorni dopo, sul sagrato della Chiesa Madre di Gibellina, mentre stiamo dando l’estremo saluto al Senatore, l’assessore Missineo mi prende sottobraccio e sull’onda dell’emozione mi dice che troverà i fondi necessari per il completamento, che lo deve anche a Corrao (e manterrà la promessa).

L’ultima montagna il Senatore l’ha spostata con la propria morte.

I lavori del Cretto sono stati completati qualche settimana fa. La parte nuova, del bianco candido voluto da Burri, evidenzia ancora di più il grigiore della parte vecchia, creando una stridente dissonanza.

Cosa fare per assicurare “la conservazione a futura memoria”? Come uniformare la parte vecchia con la nuova?

Della necessità che la manutenzione di quell’opera straordinaria avesse bisogno di un approccio altrettanto straordinario ne avevo parlato con Corrao. Per lui era chiaro che il Cretto di Gibellina non era un’opera d’arte come le altre e che oltre l’idea c’è il dato oggettivo: è il sepolcro del vecchio paese, sotto la sua superficie di cemento realizzare non dalla mano del Maestro ma da muratori e carpentieri, ci sono i ricordi, la storia e le radici di tutta la comunità gibellinese.

È un’opera attraversabile. Più che una scultura è architettura. Ed è stata pensata e voluta da Burri bianca, di un bianco talmente squillante da essere quasi disturbante.

Burri, come già ricordato, avrebbe voluto che fosse la comunità di Gibellina a realizzarlo. D’altronde, la sua opera è stata donata alla cittadinanza, e la cittadinanza, sebbene espropriata del titolo di proprietà delle proprie case non più esistenti, ne è moralmente proprietaria e quindi custode. Anche se queste basi si ragionava con Corrao, e l’idea che il Cretto andasse ripulito e imbiancato periodicamente dalla comunità (con la calce, materiale povero che disinfetta e disinfesta, facile da usare, e che ci riporta a una tradizione di tutta l’aerea del Mediterraneo) ci sembrava l’unica strada percorribile. L’alternativa sarebbe un restauro conservativo di ispirazione brandiana, un modello giustamente diventato prassi nelle soprintendenze italiane, ma che ha i suoi limiti oggettivi e nessuna ragione valida che impedisca la sua revisione in presenza di opere contemporanee e inclassificabili qual è il Cretto. Un modello che proprio partendo da una discussione sul caso specifico del Cretto potrebbe trovare validi e utili spunti per fare il punto, rinnovare, superare, anche attingendo da visioni e prassi diverse, prima fra tutte quelle di scuola anglosassone.

Un’altra considerazione credo vada fatta, senza per questo volere piegare la filosofia che sta alla base di un intervento di questo tipo a ragioni puramente economiche. Non possiamo però far finta di non considerate i costi insostenibili di un restauro conservativo, e la necessità che esso venga ripetuto spesso. Chi dovrebbe sostenere tali costi? Il Cretto non deve morire, ma non può neanche trasformarsi in un buco nero di soldi pubblici. Anzi, dovrebbe diventare, grazie ad azioni mirate che ne assicurino la promozione e la visibilità, un bene culturale comune capace di attirare turisti e di conseguenza, se ben gestito, produrre economia.

Ma il vero nodo da sciogliere per assicurare al Cretto un futuro sta nel rapporto tra il sito dei Ruderi e la sua gente. Il Cretto è stato vissuto all’inizio come un corpo estraneo, una violenza contro quelle macerie che nella loro povera fisicità erano però capaci di alimentare un rapporto fortemente sentimentale. L’iniziale rifiuto di quell’opera ha come aumentato la distanza fisica (18 km) tra la Nuova e la vecchia Gibellina, una distanza poi cresciuta per l’indifferenza verso un’opera lasciata a metà.

La necessità di un restauro partecipato e attivato dalla Comunità parte prima di tutto come necessità di creare un nuovo rapporto con l’opera di Burri e con l’intero sito dei Ruderi. Ed è pertanto da questa necessità che dovrebbe essere progettato e messo in atto. Dovrebbe prima di tutto essere un’opportunità per ritrovarsi in un momento di festa e rituale in cui la popolazione si riappropria del luogo e dei simboli a esso riconducibili. Dovrebbe essere non solo economiche sostenibile, ma capace di produrre economia e quindi vantaggi diretti. E deve chiaramente servire a mantenere costantemente visibile l’idea di Burri, nella sua originale e fondamentale cromia.

Per la gente di Gibellina sarebbe un modo per rompere l’incantesimo dell’umana nostalgia di un passato mitizzato dall’evento tragico del terremoto e di quello che ne è seguito, per finalmente accettare il presente, e cominciare a investire nel futuro.

Un restauro fatto in tale modo, coinvolgendo i molti artisti che hanno già dato disponibilità a partecipare, diventerebbe un evento perfetto per la comunicazione, uno strumento straordinario di promozione mediatica, estremamente efficace per attrarre volontari, pubblico, flussi turistici, e sponsor privati.

Questi ultimi tre anni ho avuto modo di convincere quest’idea con restauratori, esperti di materiali del contemporaneo, storici dell’arte, curatori. Con artisti, musicisti, performer. Con le persone che più di tutte sono state vicine e hanno collaborato con il Maestro negli anni in cui si costruiva il Cretto. Con la gente di Gibellina. E con le istituzioni che devono decidere, Comune di Gibellina e Soprintendenza di Trapani. A parte queste ultime, legate all’idea di restauro conservativo, tutti hanno accolto con entusiasmo l’idea e il suo senso profondo.

Il progetto di Corrao incarnato da Gibellina, esemplarmente sintetizzato dal Cretto di Burri, fondato sull’idea mediterranea che la bellezza rigeneri in un approccio maieutico, sulla necessità di rivivere, riattivandoli, i miti fondanti della nostra civiltà, è stato finora, non a torto, considerato un’utopia.

Il restauro partecipato segnerebbe il passaggio tra l’utopia e il presente, e il Cretto, finalmente, diventerebbe l’opera d’arte totale che Burri sognava di realizzare.

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Alessandra Oddi Baglioni: BURRI A GIBELLINA IN CONTROLUCE
“Due o tre cose che so di lui”.

Dopo le importanti celebrazioni del grande artista Alberto Burri mi potrete chiedere cosa ci viene a dire una che una che ci vuole raccontare un Burri in controluce, un Burri dietro le luci accecanti che hanno illuminato le espressioni della sua arte. Un Burri vicino di casa, un Burri che siede alla stessa vostra tavola. Un Burri che vi prende per mano e vi spiega non la sua opera – perché quella lui non ha mai voluto spiegarla – ma vi spiega se stesso.
Eh già! Io Burri non l’ho conosciuto di persona, non l’ho conosciuto in carne ed ossa. Ma è un personaggio che mi ha sempre affascinato. Ho cominciato piano piano ad avvicinare le persone che lo avevano incontrato, dapprima quelle ufficiali, poi gli amici, quelli delle partite di calcio, quelli degli appostamenti per la caccia. Al mio lavoro però mancava ancora un tassello, che per una donna è essenziale: mancava di parlare con chi aveva trascorso con lui le sere, con chi aveva condiviso gli attimi che rendono due esseri fusi in un solo pensiero. La moglie, l’enigmatica, l’estrosa Minsa, era morta. Altri con cui avevo parlato erano elusivi su questo tema. Finalmente un incontro ha da dato una svolta alle mie ricerche e, condotta per mano da una donna – anche lei grande artista, ho scoperto anche il cuore di Burri.

Pian piano mi si è ricomposto un mosaico; e credo di aver vissuto con la sua ombra, calpestato i suoi terreni, respirato la sua aria, addirittura mangiato ciò che mangiava lui: in una parola è come se avessi vissuto per sei mesi con la sua anima.

Ho cercato di raccontare “L’Umbrietà” di Burri, i suoi neri ed oro rispecchiavano i colori del rinascimento, le sue tele stracciate, l’estrema povertà della nostra terra, i territori aspri e difficili dell’alta valle del Tevere. Così, anche nel raccontare la sua presenza a Gibellina, ho voluto dare una immagine inusuale, convinta che la nostra Umbria, che pure è squassata continuamente dai terremoti, lo avesse segnato nelle sue decisioni.

Il più grande capolavoro europeo di land art poteva nascere solo da quella caparbietà che confronta l’uomo con la natura distruttrice.

Nel mio capitolo su Gibellina, estratto dal volume Controluce. Alberto Burri. Una vita da artista, edito da Donzelli, ho cercato di mostrare il momento in cui Alberto decide di occuparsi del territorio terremotato.

“Arrivai a Gibellina, alla nuova Gibellina, quella ricostruita a venti chilometri dal luogo della distruzione, nel primo pomeriggio, accolto dalla stella di Consagra. Una porta d`acciaio attraverso cui si intravedeva un cielo striato: la scultura sembrava impedire anche alle nuvole rosate di entrare in città. Diane aveva tanto insistito, Corrao mi chiamava quasi ogni giorno, ho dovuto accettare di andare almeno a fare un sopraluogo. Per fortuna c`era lei, Giovanna, l`unica in grado di capire l’angoscia che mi provocava quella desolazione: mi ricordava la guerra e la disperazione del dopoguerra. Ma lei con il suo sorriso, con le sue parole mi incoraggiava.

Ero lì, seduto nella hall dell`albergo, incapace di muovermi, ma lei mi prese per mano, mi fissò negli occhi: «Pensa alla ricostruzione, a ciò che puoi fare per questa povera gente.» In quel mentre entrò Diane: «Andiamo, Zanmatti vuol farci fare un giro.» Vagammo per la città piena di cantieri. Ci fermammo nel portico del comune. Avevano voluto rappresentare la città ideale, e le ceramiche della Attardi richiamavano un colore rinascimentale, ma c`era qualcosa di discordante come un bellissimo pezzo musicale dove qualcuno stonava. Camminavamo in un immenso museo all`aperto, fuori dal tempo, vivo, ma la città… dov’era la città?

Poi entrammo nella Chiesa di Quaroni. Mentre gli altri discutevano sulle rotondità della palla, io cercavo Dio in quel luogo, ma avevo l`impressione che se ne fosse tenuto lontano. L`avvolgersi su se stesso di quella palla non aveva nulla dello slancio verso il cielo dei miei campanili umbri. Diane cominciò a parlare con Giovanna: il gorgoglio delle parole rintronava nelle mie orecchie, uscii di scatto da quella chiesa alla ricerca di qualcosa di diverso.

A cena dissi: «Basta andiamocene io non potrò mai intervenire in questo guazzabuglio, perché mi avete portato qui? Diane domattina ripartiamo.» Uscii infuriato, e Giovanna mi seguì mi prese per mano e cercò di calmarmi. Udimmo un leggero scampanellare e in fondo, di fronte alla montagna di sale di Paladino, da cui i cavalli spezzati cercavano invano di uscire, vidi passare un carretto siciliano luminoso nei suoi colori, tirato da un cavallo bardato a festa che faceva dondolare i campanellini dalle sue orecchie. Dietro di lui una processione di gente che cantava litanie, invocava la vergine e si dirigeva verso i luoghi della vecchia Gibellina, i luoghi spazzati via dal terremoto. Ci unimmo a loro, Giovanna stringeva sempre più forte la mia mano: in quel momento capii cosa volevo fare.

Gli occhi di quella gente che riflettevano il bisogno disperato di tornare alla loro Gibellina, che ormai era solo nei loro sogni mi aveva fatto venire un`idea. La mia opera avrebbe dovuto sorgere dove il terremoto aveva colpito, dalla rovina sarebbe sorto il simbolo della speranza, del futuro, di tutto ciò che sarebbe potuto accadere un giorno qui.

La mattina dopo mi diressi velocemente all`ufficio del sindaco: «Ho deciso, interverrò». Corrao tirò un sospiro di sollievo. Continuai: «Perimetreremo tutta la zona terremotata, la ricopriremo di cemento bianco lasciando emergere le vecchie vie. Farò in modo che dalle superfici bianche emergano i cretti.» Corrao impallidì: «L`idea è splendida, ma un`opera così colossale non posso affrontarla con le risorse modeste che mi sono state affidate.» Intervenne il mio angelo custode Diane: aprì una sottoscrizione internazionale, sollecitò gli emigrati denarosi: da tutto il mondo arrivarono i fondi. I lavori iniziarono alla fine del 1984 e continuarono per cinque anni.”

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Petra Noordkamp: IL GRANDE CRETTO DI GIBELLINA
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Museo Guggenheim, New York
Alberto Burri: The Trauma of Painting” – trailer

Il cortometraggio è stato commissionato dal Museo Guggenheim di New York in occasione di una grande mostra dedicata ad Alberto Burri: “Alberto Burri: The Trauma of Painting” del 2015, dove il filmato è stato proiettato per tre mesi. Petra Noordkamp ha visitato il sito diverse volte per creare un film che cattura il Grande Cretto come un’opera d’arte esperienziale piena di senso del luogo, memoria e storia, ma non solo. Il filmato non mostra il Cretto in quanto opera d’arte, ma attraverso suoni, immagini e filmati d’epoca dal grande impatto emotivo, viene mostrato quello che rappresenta il Cretto, la memoria di una collettività che è stata spazzata via dal terremoto, ma non per questo va dimenticata. 

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