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CHEF’S TABLE

Al tavolo dello Chef

Chef’s Table è una serie di documentari sviluppata per Netflix da David Gelb. In ogni puntata viene raccontata la vita e la carriera di uno chef di fama mondiale.
Alla prima stagione, lanciata nel 2015, ne sono seguite altre cinque distribuite tra il 2016 ed il 2020.
La serie si addentra nelle vite e nelle cucine degli chef più famosi e rinomati del mondo. Ogni episodio si concentra su uno chef diverso e sul loro sguardo unico alla vita, al talento e alla passione dal loro angolo di paradiso culinario.

Il titolo della trasmissione è un esplicito riferimento al tavolo dello chef, in inglese appunto chef’s table, un tavolo che, nei grandi ristoranti, è collocato nella cucina, e precisamente nella zona della stessa in cui avviene la preparazione e la composizione dei piatti. Vista la sua particolare posizione, questo tavolo consente a chi lo occupa di seguire dal vivo il lavoro di una brigata di cucina, di conversare con lo chef e di ascoltare le sue spiegazioni sulle tecniche di preparazione, sulla storia o sulla genesi dei piatti che si andranno a consumare.

Abbiamo selezionato tre personaggi molto particolari della grande cucina italiana che sono stati protagonisti di episodi della serie di Netflix, e li abbiamo presentati nel contesto della V Settimana della Cucina Italiana nel mondo in occasione della 3° Rassegna virtuale del MadeInItaly in ambito culturale Autunno all’italiana_online.

Dario Cecchini

Dario Cecchini
Solo ciccia a Panzano, Italia

6th season, 2019
regista: Jim Goldblum – 47′

C’è chi pensa che tutto sia cominciato da un funerale: quello della Bistecca.

Macché. La sua storia Dario Cecchini, macellaio in Panzano in Chianti da otto generazioni, se l’è costruita giorno per giorno. E continua a costruirsela ancora nonostante ormai sia una star internazionale che, quando non è in “bottega” come dice lui, a curarsi e a massaggiare la sua “ciccia”, è sempre in giro per il mondo invitato dai potenti della Terra così come dagli enti di beneficenza, dalle associazioni dei macellai, o dai grandi chef di Londra o di New York, come Jamie Oliver o Antony Burdain per fare qualche iniziativa insieme. Un giorno, due, al massimo una settimana, ma poi torna.

Torna sempre alla sua Panzano, un paesino nel cuore del Chianti, a metà strada esatta tra Siena e Firenze, dove vivono 964 persone ma da dove passa tutto il mondo. In gran parte ci passa, non solo per godersi il cuore del Chianti, ma proprio per andare a mangiare da lui, “dal Cecchini”.

Alessandro Rossi

Dario è un uomo semplice e intelligente, uno che il marketing ce l’ha nel sangue e la macelleria nella sua storia. Eppure lui il macellaio non lo voleva fare, studiava veterinaria a Pisa.

“Quando ero piccolo, già a sei-sette anni”, racconta, “il mio babbo mi portava con sé per le fattorie a comprare le bestie: io ero affascinato da quegli ambienti, da quei colori, da quelle persone, persino dall’odore delle stalle che per molti è un puzzo ma per me è un profumo, che sento ancora. Il rapporto con la campagna per me è sempre stato profondo. Non saprei vivere in città, non ci riuscirei”.

Chi vuole può trovarlo nella sua bottega di Macellaio che ha ereditato dal padre Tullio (insieme alla capacità di tenere rapporti interpersonali) e dalla madre Angela, che tutti chiamavano Angiolina, (da cui ha preso la grande tenacia nel lavoro) scomparsi troppo presto.

E infatti Dario a nemmeno 20 anni si è ritrovato a dover lasciare gli studi e a mettersi il grembiule per fare un mestiere che non solo non sapeva fare ma non voleva fare.

“Tutto quello che so me lo ha insegnato Orlando Picci, un vecchio grande macellaio, amico di famiglia, che ancora oggi lavora con me. Ma io non volevo fare il macellaio, volevo che la mia vita da studente si allungasse il più possibile, ho sempre avuto uno spirito molto toscano, un po’ alla Amici miei”.

La prova provata è appunto l’idea del Funerale della Bistecca. “Visto che dal 1 aprile 2001 la Comunità europea avrebbe messo al bando la bistecca con l’osso, pensai di organizzarle il funerale per l’ultimo giorno della sua vita, ossia quello precedente all’entrata in vigore del divieto. Avevo organizzato tutto un po’ alla buona con la banda del paese e un carro funebre preso a noleggio per metterci dentro una lombata di bistecche. Solo che il giorno prima la Reuters lanciò la notizia a livello internazionale. Tutto il mondo seppe che a Panzano in Chianti c’era il Funerale della Bistecca. E il paese si riempi di gente, televisioni, giornalisti…”

Oggi Dario vive bene. Sua moglie, Kim, americana, gli ha dato quel pizzico di raziocinio di cui il genio aveva bisogno, i suoi oltre 40 dipendenti lo seguono come il capitano di una nave. La Macelleria Cecchini è aperta 364 giorni l’anno. Chiude solo il giorno di Natale quando Dario va a cucinare per i tre frati che vivono alle Stinche un piccolo eremo a pochi metri da casa sua.

 Ma Dario, nonostante sia un personaggio affermato, non vuole mai smettere di divertirsi seguendo il suo motto “Viva la ciccia”. Così ha sempre un’idea nuova come quella dello slogan “To beef or no to beef, this is the question” che gli venne spontaneo una volta che a una grande festa in Toscana con Carlo d’Inghilterra, non parlando l’inglese e non sapendo cosa dirgli, provò a rivolgersi al Principe declinando Shakespeare alla maniera del macellaio.

Oggi “To beef or no to beef” è il grido che Dario lancia quando viene portata in tavola la Fiorentina. Già, la tavola. Cecchini ha due ristoranti, il Solo Ciccia e l’Officina della Bistecca, basati sulla filosofia del “non si spreca nulla” o meglio della “vacca intera”, ereditata anche questa dai genitori. “La Macelleria Cecchini, quando ero ragazzo, era la più piccola della Toscana. In casa non stavamo male ma i nostri pranzi erano sempre a base di quello che si vendeva meno: la testa, la coda, le zampe, le trippe. Non ricordo, da bambino, di aver mai mangiato una bistecca o un filetto. Così ho imparato che della vacca o del vitello non si butta via niente”.

L’idea di abbinare un ristorante, anzi “una cucina” come dice lui, alla Macelleria è nata in America, a San Francisco, durante uno dei suoi tanti viaggi a cucinare o a insegnare il taglio della carne nel mondo. “Kim ed io eravamo stati a una cena da Chez Panis e stavamo facendo una passeggiata. Arrivammo nel quartiere di Mission, oggi molto trendy, ma allora molto degradato, dove un gruppo di ispanici stava fumando crack davanti a una McDonald’s. Fu lì che dissi a Kim: ma perché i poveri devono mangiare sempre male e i ricchi sempre bene? Sarà possibile dare cibo di qualità a un prezzo giusto? Mi ero fatto la domanda ma mi ero anche già dato la risposta”.

Nacquero così il Solo Ciccia con sette portate di carni diverse, l’Officina della Bistecca dove si servono quattro qualità diverse di bistecca fino ad arrivare al trionfo di Sua maestà la Fiorentina come dice lui. Due menù di carne, diversi nell’offerta, a prezzi contenuti. Ma si torna sempre là, alle origini. “I miei genitori mi hanno insegnato che quando hai ospiti devi prenderti cura del mangiare e del bere che offri, ma soprattutto della loro felicità. Insomma devi farli star bene in tutto”. A qualunque costo. Lo dimostra il fatto che nei suoi ristoranti c’è sempre un menu vegetariano che viene presentato con la stessa dignità di quello tradizionale.

Ma non è finita qui. Dario è uno che pensa sempre al futuro, anche se, e lo dice a malincuore, non ha eredi. Ha comprato una parte del Castello di Panzano in Chianti e lo sta attrezzando per un’altra delle sue sorprese socio-gastronomiche. “Sarà una cosa insolita”, dice. Naturale: da lui chi se l’aspetta una cosa normale?

Alessandro Rossi

Corrado Assenza

Corrado Assenza
Caffè Sicilia a Noto, Italia

4th season (pastry), 2018
regista: Brian McGinn – 48′

Anima libera, materia prima e pasticceria. Dalla storica cattedrale del gusto a Noto, l’illuminato Corrado Assenza prosegue la rivoluzione culturale del mondo gastronomico che, da circa un quarto di secolo, lo porta a raccontare il suo solido pensiero umano e tecnico alle più autorevoli platee di settore conferendogli un’evidente aura di mito. Nonostante i successi, l’umiltà è dote dei grandi: «Non mi sento un mito e, se qualcuno mi definisce così, sono a disagio perché non saprei darmene una motivazione; la cosa che mi ripeto sempre è che quello che c’è da fare è molto di più di quello che è stato fatto. Finora non abbiamo costruito ancora niente».

In realtà, quando si parla di determinate eminenze, c’è poco da minimizzare: Assenza, patrimonio dell’umanità nel cuore del Patrimonio dell’Umanità, è magistrale due volte, da una parte recupera e rivaluta la memoria dolciaria siciliana, dall’altra formula le sue proposte contemporanee dai sapori fulminanti e complessi, edibili fotografie della pulsante genialità del fantasista di Trinacria.

Ecco allora ritrovare nelle preparazioni della tradizione l’essenza pura e sincera degli ingredienti: indimenticabili e soffici brioche, golose e friabili raviole e poi le sensazionali granite dal gusto netto e profondo. Innovazione e perfezione negli imperdibili tranci al bergamotto e pepe bianco o al Pompelmo rosa e peperone. Vetrina ovviamente “fluida”: tutta l’offerta può variare in base alla reperibilità dei prodotti rigorosamente di stagione.

Davide Visiello

Prima della classificazione delle scienze operata oltre duemila anni fa da Aristotele, il sapere era uno solo e faceva tutt’uno col mondo del mito. Stabilita la divisione dei saperi, sono arrivate le discipline e così i professionisti iper-specializzati (chimici, politici, medici…) che oggi imperano. A Corrado Assenza le categorie che separano i saperi non sono mai piaciute: non esiste il cuoco “salato” di qua e il pasticcere di là «perché la natura stessa non è dolce o sapida: queste sono categorie che applichiamo noi umani, in maniera del tutto arbitraria, alla cucina e all’ordine delle pietanze».

La sostanza del concetto è rivoluzionaria perché è come se ricatapultasse i nostri palati alla dimensione del mito, a una comprensione del mondo come uno, a un’adorazione totale della natura non frammentata dai milioni di punti di vista che nei millenni l’hanno seviziata, impedendoci di coglierne i sacri sussurri.

Il creato è uno, e quello della Val di Noto è un microcosmo tra i più felici, è un geo-eden dei sapori, una miniaturizzazione da esplorare senza rifiatare. In compagnia di Virgilio-Assenza che dal Caffè Sicilia in piena Noto ci racconta tutto il creato vegetale e animale che circonda il barocco della città: le mandorle, le granelle di pistacchio di Bronte, le carrube, i mieli di fiori d’arancio, le ricotte ovine, granite e gelati di carne, di cespugli di gelsomino che marcano il percorso.
I gusti naturali, insomma, che segnano la storia di un’isola che ha tanti volti quanto quelli delle genti che l’hanno percorso, le tecniche che rispettano e non stravolgono, gli estrattori di aromi, le idee che esiliano dai banchi delle pasticcerie i semilavorati industriali. Una venerazione universale e mitologica del buono. Uno scientificissimo schiaffo alle categorie che non cessa di richiamare cuochi coi galloni (dolci e salati…) da ogni parte del mondo.

Gabriele Zanatta

Massimo Bottura

Massimo Bottura
Osteria Francescana a Modena, Italia

1st season, 2015
regista: David Gelb – 55′

Mi chiamo Massimo Bottura. Sono uno chef italiano nato a Modena. Sono cresciuto sotto al tavolo dove mia nonna Ancella tirava la sfoglia. Il mio sogno è cominciato lì.
L’ispirazione viene dal mondo che mi circonda – dall’arte alla musica, dal cibo buono alle macchine veloci.
Ho seguito le mie passioni per oltre trent’anni per riuscire a trovare la mia voce. È venuto il momento di usarla per rendere visibile l’invisibile.

Sprechiamo un terzo del cibo che viene prodotto nel mondo. Per questo nel 2016 ho fondato Food for Soul, che lottando contro lo spreco alimentare costruisce progetti di inclusione sociale.
Io mi domando: ma noi chi siamo? Io credo che oggi un ristorante, in Italia, valga una bottega rinascimentale: facciamo cultura, siamo ambasciatori dell’agricoltura, siamo il motore del turismo gastronomico, facciamo formazione, ed ora abbiamo dato inizio ad una rivoluzione culinaria “umanistica” che coinvolge il sociale.

L’ospitalità e la ristorazione, l’arte e l’architettura, il design e la luce sono gli assi portanti della nostra identità. Negli ultimi cinque anni a Modena, grazie ad un micro ristorante come l’Osteria Francescana, sono nati oltre 80 b&b. È nato il turismo gastronomico dove migliaia di famiglie, coppie, amici, passano due o tre giorni, in giro per l’Emilia, a scoprire e celebrare i territori e i loro eroi: contadini, casari, artigiani, e pescatori.

Massimo Bottura

Lei ha dichiarato che nel suo lavoro di chef le influenze più importanti le ha ricevute da Alain Ducasse, Ferran Adrià e da sua nonna. Che cosa ha preso da ognuno di loro?

Hanno influenzato in maniera decisiva la mia vita e la mia carriera nel campo della gastronomia.
Nel 1994 cucinavo al «Le Louis XV», un ristorante a tre stelle, dove Ducasse mi ha insegnato tutto sul valore autentico delle tradizioni culinarie e degli ingredienti mediterranei. Mi ha mostrato l’importanza del rispetto per la tradizione e per l’evoluzione mettendo sempre la qualità al primo posto. Il giorno che sono andato via mi ha chiesto di fargli vedere il mio taccuino, su cui appuntavo scrupolosamente ricette e tecniche gastronomiche. Ha dato un’occhiata, se l’è messo sotto il braccio e mi ha detto “È venuto il momento che cammini con le tue gambe”. Il taccuino non l’ho più avuto indietro.
Poi, per affinare la mia tecnica, nell’estate del 2000 ho lavorato al ristorante «El Bulli», dove ho trovato qualcosa di completamente diverso: la libertà espressiva. Ferran mi ha insegnato a credere nelle mie idee, ai miei sogni e ai miei progetti. Mi sono accorto che la tecnica può rivelarsi una trappola e che in una ricetta la cosa più importante non sono né la tecnica né gli ingredienti ma l’idea.
Infine, da mia nonna Ancella, crescendo ho imparato molte cose importanti. Innanzitutto che è importante cucinare quello che si ama. Ho imparato a rispettare gli ingredienti, le ricette tradizionali, ma soprattutto la “morale della cucina”: non sprecare mai neppure una briciola. La cucina migliore è quella che opera in modo completo e totale. Non dimenticherò mai l’estate che mia sorella e io trascorremmo insieme sugli Appennini.

In che senso la sua gastronomia è stata influenzata dal suo amore per l’arte moderna?

Sia l’arte sia la gastronomia coinvolgono i sensi, risvegliano i ricordi, lasciano la loro impronta e segnano la storia personale di ciascuno di noi in modo misterioso. Assieme a mia moglie ci scambiamo ricordi di mostre d’arte e di grandi esperienze culinarie. Sono questi i nostri momenti più importanti, quando il cibo e l’arte diventano parte di una consapevolezza che riempie di senso la vita delle persone. L’arte moderna ha influenzato in misura determinante il mio tipo di approccio alla cucina italiana.
Una storia che racconto spesso riguarda l’artista Gino de Dominicis a cui avevano chiesto di fare il ritratto di un importante collezionista di opere d’arte. Gino invitò il collezionista a casa sua e sistemò una grande tela bianca sul cavalletto. Il collezionista si mise in posa e vi rimase per molte ore, durante le quali l’artista fece colazione a letto, lesse il giornale, andò in bagno, si vestì… Alla fine il collezionista, infuriato per quel comportamento, domandò all’artista quando fosse pronto il suo ritratto. Gino rispose: «Mi dia un minuto». Prese il pennello e dipinse una piccola macchia rossa al centro della tela, fece un passo indietro e disse «il suo ritratto è pronto». Quando il collezionista vide la tela, rivolse uno sguardo deluso all’artista, e questi subito rispose «questo è il suo ritratto da 10 chilometri di distanza…».
Quando ho sentito questa storia, ho cominciato a rendermi conto che quello che facevo in sostanza era guardare il territorio e la tradizione culinaria italiana da 10 chilometri di distanza. Quando ne ho avuto piena consapevolezza, ho lasciato che la mia cucina e le mie idee si evolvessero, e che nei miei piatti si riflettesse il mio progetto relativo al territorio e alla tradizione.

Quali artisti in particolare l’hanno influenzata?

L’arte è molto importante per l’esperienza che offriamo all’Osteria Francescana e diamo molta importanza all’informazione dei nostri ospiti per quanto riguarda le fonti della nostra ispirazione [alle pareti del ristorante di Bottura sono esposte opere di arte contemporanea di grande valore]. Per noi le opere d’arte sono un campo di idee che aiuta i nostri ospiti a penetrare meglio nella filosofia delle nostre ricette. L’arte mi ispira a pensare fuori dalle convenzioni, ad acquisire nuove prospettive, a vedere il mondo da sotto il tavolo, capovolto o verso l’esterno. Tra gli artisti che mi hanno influenzato, e che sono esposti alle pareti dell’Osteria Francescana, ci sono Joseph Beuys, Maurizio Cattelan, Gavin Turk e Damien Hirst.

Si ritiene un artista, e se sì, a quale categoria pensa di appartenere: a coloro che fanno arte per soddisfare un bisogno interiore o a quelli che vogliono soddisfare il pubblico e/o la critica?

Non credo che un artista autentico senta mai il bisogno di soddisfare i critici. Fare arte è un lavoro molto difficile, per individui che sanno andare a fondo nelle cose.
Gli chef, poi, in fondo sono degli artigiani. Non possiamo fare quello che vogliamo, quando vogliamo e come lo vogliamo. Siamo obbligati a offrire ai nostri ospiti dei piatti sani e gustosi. Un artista, al contrario, quando crea può fare qualsiasi cosa ritenga opportuna.
Gli artisti più importanti sono quelli che contribuiscono al dialogo e che agevolano il progresso, sviluppano le tecniche o fanno emergere nuove prospettive. Alcuni dei miei artisti preferiti sono molto audaci e non fanno un’arte bella o tale da piacere ai critici. La loro è un’arte che reca con sé un importante messaggio morale.
I miei artisti preferiti sono quelli che non temono il ridicolo, che non hanno paura di essere derisi o di opporsi allo status quo. Per sua natura, l’arte è ambigua, anticonformista, e gioca con il limite. Questo io trovo che sia una cosa intellettualmente stimolante, soprattutto nell’ambito di un’esperienza offerta in un ristorante di alta gastronomia, perché nessuno si aspetta di trovarvelo.

Lei dà grande importanza allo storytelling, che riteniamo una caratteristica importante dell’alta gastronomia. Le andrebbe di condividere con noi qualcuna delle sue storie gastronomiche?

Creare una ricetta è un processo intellettuale. È lì che si trova la bellezza, la magia, l’alchimia e il mistero di una cucina. All’Osteria Francescana tutto è sempre in predicato e non c’è niente che sia scolpito sulla pietra. Lo storytelling fa parte del nostro DNA e ogni ricetta ha una provenienza precisa.
Ecco per esempio la Compressione di pasta e fagioli, che risale al 2001. Era poco prima che ricevessimo la nostra prima stella e credo che se l’abbiamo ottenuta è stata anche grazie a questa ricetta. Pensavamo alla forza degli ingredienti semplici e alla cucina povera, la cucina italiana ricca di cuore che si basa su ingredienti umili come i fagioli, la crosta di parmigiano e la cotica di maiale.
Così abbiamo cominciato con un semplice, gustoso piatto di pasta e fagioli, che tutte le famiglie italiane preparano per arrivare alla fine del mese. Ma questo non sarebbe stato un semplice piatto di pasta e fagioli. Il nostro obiettivo era sottoporre la ricetta della tradizione a una magica metamorfosi per riscattarla agli occhi del pubblico.
Per questo abbiamo concentrato il contenuto di una ciotola dentro un bicchiere cilindrico. In fondo abbiamo messo una creme royale preparata alla maniera tradizionale francese, una strizzatina d’occhio alla mia esperienza con Alain Ducasse. In cima abbiamo messo acqua di rosmarino, uno dei sapori dominanti nella pasta e fagioli tradizionale, che però spesso copriva gli altri sapori. Quest’acqua di rosmarino era un’evidente riferimento alla mia esperienza all’«El Bulli».
Tra la base e la cima c’era un purè di fagioli con cubetti di pasta, ma anziché pasta all’uovo abbiamo creato una pseudopasta con croste di Parmigiano tagliate sottili e bollite assieme ai fagioli. Questa è la parte sentimentale della ricetta, che ricorda la cucina di mia nonna. Lei aggiungeva sempre delle croste di Parmigiano alla minestra e al brodo, per insaporirli, e noi ragazzi litigavamo per queste croste che si erano ammorbidite nella cottura.
Lì, tra Ducasse e Adrià, avevo compresso anche il ricordo di mia nonna e gli autentici sapori locali della mia infanzia.

Vasilis Ikonomidis

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