INDICATIVO PRESENTE
La Trilogia dell’oggi
L’iniziativa presenta a Leros il 28 giugno ed il 1° luglio 2023 presso il cine-arena comunale di Lakki le due opere più recenti della Trilogia dell’oggi di cui faceva parte il documentario d’autore Il sorriso del gatto presentato nel corso della manifestazione Cinema & realtà che aveva circuitato in sette località della Grecia tra il luglio 2019 ed il dicembre 2021.
Mario Brenta
Veneziano, regista cinematografico, docente di cinematografia presso l’università di Padova, presso ACT Multimedia Cinecittà e presso Ipotesi Cinema, il laboratorio cinematografico fondato da Ermanno Olmi a cui collabora fin dalle origini. Attivo sia nel campo della fiction che in quello del documentario ha realizzato diverse opere cinematografiche – fra cui Barnabo delle montagne, Maicol, Vermisat, Robinson in laguna, Jamais de la vie!, Effetto Olmi – che hanno tutte ottenuto numerosi riconoscimenti nei maggiori festival e rassegne internazionali: Cannes, Venezia, Berlino, Locarno, Montréal… In campo televisivo, svariate le sue collaborazioni con la Rai, France 2, Arté/La Sept.
Karine de Villiers
Nata a Quito in Ecuador, si è laureata a Bruxelles in Archeologia e Storia dell’Arte. E’ in quest’occasione che incontra il documentarista Henri Storck che sarà all’origine della sua passione per il cinema. Nel 2010 inizia la sua collaborazione con Mario Brenta con il quale realizzerà numerosi film: Calle de la Pietà, Agnus Dei, Corpo a Corpo, Delta Park ed il recentissimo Il sorriso del gatto. È attualmente delegata del Centro dell’Audiovisivo di Bruxelles per la promozione del cinema Documentario, è vice-presidente dell’ARRF e presidente dell’atelier di produzione Cinéastes Associés.
Carlo Guerrini – laletteraturaenoi.it, 15 Maggio 2024
Il cinema di Mario Brenta è profondamente radicato in un grande rispetto per il reale, per tutto ciò che vive, anche nei suoi aspetti più umili, meno appariscenti. Un rispetto che proviene da un senso istintivo di felicità nell’essere partecipe delle cose.
Ermanno Olmi
Vanitas
Cine-arena Comunale, Lakki – 28 giugno 2023
Fin dalla sua apparizione sulla Terra, l’uomo si accanisce a voler dominare il mondo e trasformarlo a propria immagine, ma ne è di fatto sempre trasformato. Dopo la cacciata dal Paradiso Terrestre ha cercato ostinatamente di negare la propria appartenenza alla Natura, rivoltandosi contro di essa, contro le cose, contro i suoi simili, contro persino i suoi stessi fratelli. Di qui, all’ombra della menzogna del progresso: guerre, distruzioni, sofferenze, schiavitù, follia… Una lotta senza fine che si ripete sempre uguale attraverso i secoli e le generazioni, tra desiderio e realtà, tra realtà e illusione.
[Directed by Mario Brenta & Karin de Villers – 2020, 55’]
Come è nata l'idea di Vanitas? Non certo da un concetto, da un pensiero o da un progetto preesistente. Si può dire allora che il film sia nato per caso, per una circostanza fortuita? Come praticamente quasi tutti i nostri lavori possiamo dire che anche Vanitas e nato piu che altro da un incontro, inatteso magari ma non di certo casuale.
È nato - almeno per quanto riguarda un interesse, un'intenzione – su delle immagini fotografche piuttosto che cinematografche raccolte in un luogo un po' particolare che eravamo stati invitati a visitare nell'isola greca di Leros in occasione alla presentazione di una rassegna dei nostri lavori precedenti.
Un luogo in completo stato di abbandono, se non proprio in rovina, che nella sua pluridecennale esistenza era stato destinato a svariate funzioni. Nato all'origine come caserma di un'unita dell'Aeronautica Militare Italiana di stanza nel Dodecaneso, nel secondo dopoguerra era stato trasformato in ospedale psichiatrico e, in epoca piu recente, in luogo di confino per i detenuti politici durante il regime dei Colonnelli. Da ultimo si è trovato ad ospitare migranti e rifugiati in un campo di raccolta allestito in massima parte nel parco circostante dove sono ricomparsi, in alcuni piccoli edifci sparsi tutt'intorno, piccoli gruppi isolati di malati mentali.
Storia curiosa, questa della Caserma Avieri - così era stata battezzata in origine – storia di cambiamenti che però nulla avevano cambiato se non nelle apparenze perché nella sostanza era rimasto un luogo dove aggressività, violenza, repressione avevano trovato la loro naturale dimora. Un luogo che si era sempre trovato, e tuttora si trova, ad essere testimone della fne delle illusioni, delle utopie: da quelle di dominio a quelle di libertà, da quelle dell'evasione dalla realtà a quelle della speranza in un mondo migliore. Un luogo di vuota desolazione ma non per questo privo di inquietanti presenze. Presenze fantasmatiche, invisibili evocate però dalle numerose tracce: residui di arredi sfasciati, indumenti, oggetti personali, ma soprattutto scritte, scritte di ogni tipo, tutte disperatamente dipinte o graffte sui muri delle stanze, dei corridoi, dei bagni, delle cucine...
Tracce, tracce di un passato che perdura nel presente non solo come memoria ma nel suo ripetersi sempre uguale. Tracce di ascese e declini, di guerre, di sofferenze, di malattie, di morte che da lì, culla dell'occidente, luogo dove e nato il pensiero, si irradiano per tutto il Mediterraneo attraverso la testimonianza delle rovine, dei ruderi passati e presenti di antiche civilta: greca, romana, etrusca... Immagini attuali che, in Vanitas, illustrano a livello di metafora i versetti dell'Ecclesiaste che costituiscono e dipanano il flo conduttore del flm. Curioso testo, l'Ecclesiaste, in questo suo porsi e contrapporsi come luogo dell'immanenza al sentimento mistico trascendente che permea gli altri libri dell'Antico Testamento. Un invito a «restare con i piedi per terra», un monito perentorio a rifettere sulla realtà della natura umana, a liberarsi dalla menzogna del mito e dalle pericolose insidie dell'illusione.
A quanto flmato di ciò che rimane oggi della Caserma Avieri, si sono via via aggiunti materiali eterogenei: riprese originali, fotografe, flmati d'archivio... il tutto secondo una chimica degli affetti piuttosto che secondo una sintassi narrativa tradizionale. Da una forma elementare di vita – come l'immagine di quell'alga sinuosa e futtuante che apre il flm – si è passati attraverso la comparsa dell'uomo sulla Terra alla sua cacciata dal Paradiso Terrestre e al suo continuo e vano tentativo di dominare il Mondo trasformando la Natura e di esserne in fondo sempre trasformato. In questo tentativo ogni impresa, ogni battaglia e votata all'insuccesso. Tutto va ripreso dall'inizio e tutto si ripete in un eterno ritorno dell'uguale e tutto ciò che viene dalla polvere in polvere dovra ritornare.
La vanità delle vanità, l'eterna illusione si ripresenta nella sequenza finale del flm dove il parco di un ex-ospedale psichiatrico e trasformato in una sorta di palestra all'aperto in cui l'umanità più varia si ritrova accomunata in un perpetuarsi di pratiche ginnico-sportive votate ad una forsennata quanto vana cura del corpo nel patetico tentativo di fuggire al proprio destino di esseri mortali. Per una sorta di beffarda ironia, il luogo di cura della follia si trasforma nel luogo della follia dell'illusione, del sempre vagheggiato ritorno al giardino dell'Eden, al Paradiso Perduto e mai più ritrovato.
Isole
Cine-arena Comunale, Lakki – 1° luglio 2023
Perché Isole? Perché sono quelle terre circondate dal mare e, dallo stesso mare, separate e unite. E, come isole, separati e uniti siamo anche noi, in un film mosaico, in una sorta di patchwork collettivo, di caos ordinato e armonico di sensazioni, pensieri, ricordi, attese, solitudini, speranze che ci vengono sotto forma di immagini da amici, parenti, lontani conoscenti o addirittura da sconosciuti e vanno a costituire una sorta di selfies dell’io interiore, di ritratto segreto di chi le ha create.
[Directed by Mario Brenta & Karin de Villers – 2021, 78’]
Sguardi sul mondo che se ne va
Ultimo capitolo della trilogia dell’oggi, raccolta sotto il progetto “Indicativo presente”, “Isole”, di Mario Brenta e Karine De Villiers, prosegue e chiude il racconto della contemporaneità e della sua complessità, già iniziato dai due artisti con i precedenti “Il sorriso del gatto” e “Vanitas”. Essi si muovono ancora lungo i cinque Continenti, questa volta insieme ad oltre settanta “coautori”, ognuno dei quali attraverso il proprio sguardo ha raccontato il suo mondo, all’insegna di ciò che è indicato in una delle didascalie del film: “Ogni immagine porta sempre in sé il ritratto intimo di chi l’ha creata”. Dunque, i protagonisti di questa opera sono le tante “isole”, luoghi e persone, che si ostinano a non sentirsi slegate ma che, anzi, vogliono essere arcipelago in un disegno che continui a comporsi, non arrendendosi dinnanzi ad una realtà che vorrebbe fare del mare che le unisce un mare che le divide definitivamente.
L’incipit del film richiama quello del kubrickiano “2001: Odissea nello spazio”, con le scimmie che stavolta non virano verso il futuro ma, al contrario, diventano simbolo di un mondo da preservare, da salvare da una estinzione calcolata e cinica. Le panoramiche sconfinate e desertiche che gli occhi avidi di natura incontaminata di Brenta e De Villiers ci regalano, fanno concorrenza a quelle del miglior Herzog, in un tentativo, forse disperato, di fare entrare nell’inquadratura tutto ciò che è possibile fissare e così salvare da un diluvio oramai inevitabile, che il loro collega cineasta De Bernardi, chiamato a testimoniare, auspica, invece, come momento buono in cui ritrovarsi, chi lo merita, dentro un’Arca ideale, gli uni accanto agli altri, in un afflato “familiare” che è sempre più chimera in un mondo dominato dall’io del possesso e della sopraffazione.
La sinfonia di immagini composta dai nostri due preziosi autori racconta un presente terribile di pandemia non casuale e di ingiustizie senza tempo e senza confini. Come pure, all’improvviso, quasi per magia, quegli stessi fotogrammi sanno diventare poesia scritta su sguardi così umani da lasciare basiti. Sono gli sguardi dei perseguitati ecuadoregni, degli immigrati alla ricerca di una semplice felicità, dei poveri di ogni periferia del mondo, ma anche delle tante vittime di una alienazione sempre più pervasiva, così come Antonioni l’aveva preconizzata. E’ lì, negli ultimi, nei perdenti, negli sconfitti e negli esclusi, che Brenta e De Villiers trovano la ragione di una speranza, l’ultimo anelito di un’umanità che non si arrende. Oriente e Occidente, Nord e Sud, ovunque milioni di esseri si muovono alla ricerca di un modo o di una ragione per vivere o sopravvivere. Navi cargo cariche di merce, quartieri desolati privi di tutto, natura devastata da interessi economici, solitudini urbane, tutte le condizioni di una deregulation universale che non ha più limiti e che miete vittime indifese ed innocenti. Ogni inquadratura di questo film è una invocazione , un grido di dolore, ma anche l’affermazione di una olmiana pietas che non potrà mai scomparire fin quando qualcuno mostrerà agli altri i suoi occhi di sopravvissuto.
Questo susseguirsi ed inseguirsi di immagini apolidi smaschera la grande bugia di un mondo ricco e di un mondo povero. I ricchi e i poveri sono ovunque, il lusso fine a se stesso e il degrado intollerabile altrettanto. L’ingiustizia è universale. Il Capitale imperversa, unifica e divide per i suoi scopi, travolge ogni identità, riduce tutto a strumento, crea quella cultura dello scarto da tempo stigmatizzata da Papa Francesco. Brenta e De Villiers raccontano tutto questo, e lo fanno con una consapevolezza ed una potenza visiva e narrativa davvero straordinarie. Non è sociologia la loro, è andare oltre il dato di fatto, è mostrare per dimostrare, come affermava Rossellini. L’illusorio luccichio del consumismo sfrenato, l’assordante carosello dello spreco senza vergogna, la convivenza di miseria e opulenza, la terrificante assenza di Storia, l’eterno presente della mercificazione, il corpo desacralizzato e ridotto a vuoto simulacro di se stesso. Tutto questo è in qualsiasi parte del nostro pianeta, senza distinzione culturale o di appartenenza.
E’ l’uomo a una dimensione di marcusiana memoria. Cui si oppone il “dannato della terra” di Franz Fanon, già con Pasolini assurto al ruolo di testimone ultimo di una umanità in via di estinzione. Dunque, quello di Brenta e De Villiers è un film definitivo, nulla potrà aggiungersi a quanto da loro detto. E i loro gatti, trait d’union dell’intera trilogia, sono sempre lì, sempre più perplessi e in attesa di una risposta ai tanti interrogativi posti dalla loro opera. “Isole” si chiude, non a caso, ma per logica conseguenza, con uno dei più bei finali degli ultimi anni. In esso, un uomo racconta della sua malattia e della sua necessità di assumere farmaci fino alla fine della sua vita. Un modo semplice, e per questo poetico, di avvicinarci all’essenza stessa della nostra esistenza, lontana da ogni sovrastruttura, immersa soltanto nel proprio nudo essere. Il tutto accompagnato dalle struggenti note dell’Adagio for strings Op.11 di Samuel Barber e dalle immagini di un mare che, nel suo eterno mutare, invoca una definitiva serenità per tutti.
Danilo Amione, Articolo 21 - 8.10.2021
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