Grecia e Italia, 1821-2021: due secoli di storie condivise

La casa editrice ETPbooks, promotore del progetto, in partenariato con la Società Filellenica Italiana e con la Associazione AIAL di Leros, e con il patrocinio di Università italiane e greche, Ambasciata d’Italia in Grecia, Istituto italiano di Cultura di Atene e Ministero della Cultura greco, ha organizzato un Convegno Internazionale in occasione del bicentenario della Rivoluzione greca che si è tenuto ad Atene dal 31 maggio al 3 giugno 2023.
Il convegno era articolato in tre sezioni che si sono svolte in contemporanea presso i locali dell’Istituto Italiano di Cultura (Sessione di Storia, Sessione di Letteratura), e presso la Sala Convegni della Scuola Archeologica Italiana di Atene (Sessione di Diritto Costituzionale). Le tre sezioni hanno registrato un totale di 78 interventi, presentati da relatori universitari di Italia e Grecia, raccolti in due volumi a stampa di Atti Congressuali messi a disposizione degli intervenuti già nel corso del convegno.
Presentazione del progetto
In epoca moderna l’incontro tra i due Paesi è stato contraddistinto da vicende storiche che li hanno visti spesso su un fronte comune ma, talvolta anche su campi avversi. Nel contempo il dialogo culturale, erede di una plurisecolare storia, ha trovato, successivamente all’indipendenza conquistata dalle due Nazioni, nuovi impulsi, nuovi canali di comunicazione e soprattutto nuovi temi, che iniziavano a rivolgere il proprio sguardo traendo alimento dal presente e aprendo nuove prospettive, non più solo limitandosi alla celebrazione o all’interpretazione del mondo classico.
Negli ultimi due secoli lo studio di quanto accaduto in campo storico e culturale si è sempre di più intensificato, pur concentrandosi maggiormente sui grandi temi, sui grandi fatti, sui grandi personaggi, relegando molto spesso a “fatto minore” quell’universo culturale, quell’humus, che ha permesso, alle eccellenze, di emergere e divenire simbolo identificativo della rispettiva produzione culturale. Parimenti, in ambito storico, pur avendo affrontato le molteplici vicende vissute comunemente seppur talvolta in campi avversi, oggi diventa manifestamente necessario procedere ad una disamina di taluni aspetti che, ancora irrisolti, costituiscono elemento di sottile controversia.
Le giornate di studio oggetto del presente progetto vogliono indagare proprio quegli aspetti che, segnatamente per ogni disciplina che verrà affrontata, sono rimasti in ombra negli ultimi decenni. La verifica, alla luce anche di uno studio comparato che meglio affronti – con coraggio talvolta – quanto è stato messo in disparte o dimenticato, potrà senza dubbio fornire una serie di interessanti elementi, di nuovi interrogativi e di nuove ricerche che possono costituire la base di una narrazione più consapevole e a tratti nuova di questi due secoli di storie comuni.
Sala convegni dell’Istituto Italiano di Cultura di Atene, 31 maggio 2023
Intervento all’inaugurazione del congresso del curatore Dr Enzo Terzi
Durante il periodo trascorso nella preparazione di questo convegno mi sono tornate alla mente le due prime pubblicazioni da me fatte da quando sono in Grecia.
L’una, “Spirito libero” di Iorgos Theotokas, testo risalente al 1929 e l’altra, “Nell’anno del Signore 2400” di Stefanos Dimitriadis, risalente questo al 1797.
Mi sono domandato più volte perché proprio questi due testi mi abbiano fatto decidere di indirizzare la casa editrice alla realizzazione di un catalogo come quello odierno.
Ed ho trovato, ripensandoci, tutta una serie di elementi che mi hanno ricondotto alla genesi di questo Convegno ed al rapporto tra cultura e società ai giorni nostri.
Questi due testi infatti hanno in comune un filo conduttore. In entrambi i casi, seppur con la diversità dei toni e della forma – il primo è un saggio storico-letterario ed il secondo un racconto utopico – affrontano il concetto del futuro vicino e lontano, in un caso valutandone anche molto pragmaticamente in alcuni passaggi, le possibili fisionomie ed i pericoli ad esse collegati, nell’altro caso – ed è il caso del testo del 1797 – indulgendo nella rappresentazione di un futuribile mondo perfetto che, per l’epoca in cui era stato immaginato, soddisfaceva ogni migliore aspettativa.
E questa necessità di prefigurare il futuro, o di tentare di prevederlo da sempre ci accompagna.
Venendo all’oggi, quale è e quali modalità segue la nostra capacità di vedere il futuro?
Quali sono le attese? Quanta la vastità temporale del futuro che ognuno di noi ritiene di poter anche solo immaginare? Dieci, venti, cinquant’anni, un secolo? E, più specificatamente, quali le possibilità che la cultura, oggi, possa incidere nell’immaginario del futuro prossimo venturo?
Senza dubbio alcuno la nostra è una delle epoche di transizione cui la storia ci ha abituato da secoli ma ciò che la contraddistingue dalle altre è la velocità.
Mai una tale quantità di cambiamenti, di progressioni, si era addensata in così pochi decenni o forse solo anni.
L’ultimo grande periodo di cambiamento radicale risale alla rivoluzione industriale, un cambiamento che produsse, dall’avvento del motore a vapore nella metà del ‘700 fino all’avvento della luce elettrica oltre un secolo dopo, un radicale stravolgimento nelle società di allora. Un cambiamento lungo oltre un secolo i cui effetti comportarono, se non altro, una progressiva fiducia nel futuro che è durata almeno fino agli anni settanta del novecento. Nelle famiglie i genitori potevano consigliare i propri figli indicando e suggerendo loro possibili future mansioni il cui raggiungimento era sottoposto, per molti, ad uno schema collaudato, fatto di impegno, di studio e di cultura. Ingredienti questi, capaci di aprire la strada verso un benessere che avrebbe però perso negli ultimi decenni, la peculiare caratteristica della stabilità.
Oggi la stabilità infatti è stata sostituita dalla flessibilità, dalla liquidità, dalla necessità di una elasticità fisica e mentale cui siamo ancora impreparati tanto da non riuscire a sostituire punti di riferimento forse datati, con dei nuovi.
E allora il futuro rischia di diventare un problema, non essendo più quell’immaginabile percorso lineare che ci eravamo abituati a frequentare con buona percentuale di certezza.
L’eredità di tutto ciò è l’uomo di oggi, che è tornato fragile, insicuro, intimamente precario, che non trova un futuro convincente nel quale investire e dunque cerca di proteggersi da questi meccanismi nuovi, ancora da testare, sconosciuti e si rifugia nella salvaguardia di ciò che conosce: la propria persona. Sostanza o apparenza che sia, vuole mostrarsi performante e per fare ciò necessita di accaparrarsi tutto ciò che possa rappresentarlo al meglio secondo i canoni del consumo scambiati per canoni elitari. Stiamo diventando sudditi di ciò che abbiamo e non più consapevoli di ciò che siamo.
Intanto il progresso continua a una velocità sempre crescente tanto che, in molti campi non riusciamo neanche ad immaginare dove potremo essere di qui a tre anni. Tutto sarà alla portata di tutti e tutto viene sempre di più progettato per essere venduto, nel nome di un miglioramento dell’ambiente e della condizione fisica. Ma tale e tanta è la velocità con cui ciò sta accadendo che oramai solo gli specialisti possono vantare germogli di consapevolezza che pure, per il rapido susseguirsi dei risultati raggiunti, risultano effimeri e costantemente da aggiornare.
Nel contempo, da una parte, l’incertezza sale e con essa la sensazione di non arrivare a sostenere tale velocità mentre, dall’altra, discutiamo ad esempio, le grandi questioni come i confini e i diritti come duemila anni fa e l’unico progresso che ci accompagna in simili confronti è il livello di sofisticazione delle armi, per le quali, tra l’altro, non c’è governo che non riesca a trovare fondi per comprarne (ma questa è un’altra storia).
La difficoltà ad intravedere nuovi percorsi a misura d’uomo per il futuro ci rende sudditi del facile, rapido ed aleatorio consenso giornaliero utilizzato e preferito oramai da tutti nella comunicazione: dal politico che difficilmente vede oltre il proprio mandato, dall’impresa che sa come ogni suo prodotto probabilmente non sopravviverà più di qualche mese, all’intellettuale che oramai forse per paura di essere già superato nelle proprie affermazioni preferisce il silenzio o le ovvietà di comoda esportazione e capaci di garantirgli un facile consenso, allineato.
Al resto degli individui non rimane che urlare la propria verità attraverso quella incontrollabile cassa di risonanza che è il web dove, alla conquistata libertà di poterla pubblicamente esprimere ed al privilegio di poter usufruire di una platea globale, si accompagna la vita effimera delle proprie affermazioni che vengono in pochi attimi seppellite da milioni e milioni di altre verità che vi si sovrappongono e dalla cui cacofonia rischia di restare ben poco.
E la cultura oggi? Non possiamo certo affermare che goda di grande considerazione nella graduatoria delle priorità sociali, se non per i denari che la stessa può portare in termini di turismo o di conservazione. Fatti questi non certo condannabili ma di sicuro limitanti.
Due sono state da sempre le sue funzioni capitali: raccontare l’uomo e la sua storia e forgiare l’uomo per ogni nuovo futuro. Oggi in troppe occasioni è dato constatare che solo una parte del primo obiettivo pare mantenuta perché spesso questo racconto dell’uomo e della storia appare più come una mera annotazione notarile atta a costituire un inventario fine a se stesso. Il compito di accompagnare il futuro in troppe occasioni pare delegato ad altre componenti della società. Il sistema cultura non è solo la somministrazione di opere e servizi così come molto spesso appare. Il sistema cultura è parte fondamentale della preparazione dell’uomo al proprio futuro, è fonte di indirizzo, è cassetto degli strumenti, è bacino di ispirazione, è voce primaria nella progettazione del futuro. Ed è ora che torni a far sentire la propria autorevole voce, recuperando la propria posizione nel rapporto tra l’uomo e il suo tempo e, soprattutto, contribuendo a preparare il tempo che verrà che altrimenti rischia di restare in mano agli influencer di tik-tok.
“Una pietra lanciata nella palude della cultura greca, che ne agita anche i fondali – ossia, la coscienza del lettore”: così, nel 1929, il critico Kostas Daifas salutò la pubblicazione di Spirito libero, il libello polemico di un giovane fino ad allora sconosciuto che si faceva chiamare Orestis Dighenìs. Bersaglio polemico di Dighenìs, pseudonimo di Jorgos Theotokàs, era tutto quanto continuava a reprimere le forze della cultura greca in un momento storico in cui più che mai si avvertiva la necessità di una svolta: dal neoclassicismo in versione bavarese che aveva colonizzato l’estetica dei greci fino al realismo agreste degli autori ancora fedeli ai valori del secolo precedente e incapaci di adattarsi al nuovo mondo nato dopo lo sconquasso della Grande Guerra e delle guerre balcaniche, passando per il misticismo sia di destra sia di sinistra, e per il settarismo che, a detta di Theotokàs, avvelenava la vita, pubblica e privata, della Grecia.
Jorgos Theotokàs nacque a Costantinopoli il 14 agosto 1905. Dopo la catastrofe in Asia Minore e il successivo scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia, la famiglia del futuro scrittore si stabilì ad Atene, dove, nel 1926, si laureò in Legge. Nel 1927 e 1928 continuò gli studi rispettivamente a Parigi e Londra, e nel 1929 fece ritorno ad Atene. Nello stesso anno intraprese la professione di avvocato e pubblicò il saggio Spirito libero, considerato il manifesto della generazione letteraria degli anni Trenta. Il vero e proprio debutto letterario di Theotokàs avvenne nel 1933, anno in cui fu pubblicata la prima parte del romanzo Argo. Nel 1939 l’Accademia di Atene lo insignì del premio per la narrativa per il romanzo To Demonio. Dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia contro la Grecia si arruolò nell’esercito e nel 1948 si sposò con la bizantinista Nafsikà Stergiou. Fu direttore del Teatro Nazionale di Grecia dal 16 febbraio 1945 al 10 maggio 1946, e nel biennio 1952-1953. Dall’agosto del 1952 ai primi di febbraio del 1953 soggiornò negli USA. Nel 1960 visitò l’Egitto, il Monte Sinai e il Monte Athos. Nel 1961 visitò il Libano e la Siria, nel 1962 la Romania, l’Unione Sovietica e la Persia. Nel 1964 fu nominato membro del C.d.A. del Teatro Statale della Grecia del Nord. Nel 1965 visitò la Bulgaria. Dopo la morte di Nafsikà Stergiou, avvenuta nel luglio 1959, nel 1966 sposò in seconde nozze Κoralìa Andriadi. Morì il 30 ottobre 1966 ad Atene.
… A ispirarmi è stato Basilio di Cesarea, il quale, nel suo Discorso ai giovani, a proposito dell’uso che bisogna fare delle lettere profane, afferma: “Dobbiamo accostarci a esse seguendo l’esempio delle api, che non si posano indistintamente su tutti i fiori né cercano di portar via tutto da quelli sui quali si posano; ma prendendo soltanto quanto è necessario al loro lavoro, lasciano perdere il resto” […] Il risultato finale spero che sia un’opera completamente nuova e originale, che possa incontrare il gradimento dei miei compatrioti, perché nonostante la mole ridotta, il contenuto presenta, a mio avviso, concetti di grande importanza. Il frutto della mia fatica lo offro adesso alla vostra benevolenza e chiedo venia sin da ora per eventuali errori e omissioni dovuti alla debolezza umana. Dal canto mio, prego che Dio conceda a tutti voi pace, salute e prosperità. …
Stèfanos Dimitriadis, 1797
Stèfanos Epifanios Dimitriadis nacque sull’isola di Skiathos nel 1760. Studiò nelle scuole di Volos, presso la Grande scuola patriarcale della nazione greca e l’Accademia di Bucarest. Oltre che maestro, fu anche segretario del metropolita di Ungheria e Valacchia Filàretos prima e poi alla corte del fanariota principe di Valacchia Nikòlaos Mavroghenis. In seguito fu maestro e interprete alla corte del principe Alèxandros Muruzis e governatore (voevodas) della sua isola natale. Fu autore di una storia dell’isola di Skiathos, e di commedie e tragedie di ispirazione classica. Morì a Kea nel 1827